«Quello che ho voluto fare ne “Le vite degli altri”, a parte raccontare una storia sull’ingiustizia, è stato creare bellezza in un film sulla DDR». Florian Henckel von Donnersmarck ha un nome imponente. Eppure, quello che colpisce di più di questo conte bavarese divenuto regista famoso, è la sua stazza: due metri di carne e cervello che, visti da vicino, fanno sembrare il conte von Donnersmarck più simile a un grande orso che a un aristocratico pluripremiato. Armato di sorriso e altezza, ha avuto la grazia di venire a salutare personalmente i comuni mortali della seconda sala che – diversamente dalle persone importanti con invito e dagli studenti che pazientemente avevano fatto la fila qualche ora prima – non avevano niente di meglio che un piccolo schermo sul quale seguire la conferenza organizzata dall’Università di Cambridge. E li ha rincuorati dicendo che a lui le seconde sale sono sempre piaciute di più: alla fine se il discorso è noioso uno se ne può andare senza disturbare.
Di cosa è venuto a parlare questo regista che ha fatto della grigia DDR un successo internazionale, e dello spionaggio più abietto una storia che ha commosso milioni di persone? Ha annunciato un discorso sui motivi che lo hanno spinto a realizzare “Le vite degli altri”; ma, a ben vedere, è venuto a parlarci della bellezza. Questa la parola che, insieme a visualizzazione, ricorre più spesso nel travolgente flusso di coscienza che in un’ora e più ha raccontato della sua opera prima (vincitrice dell’Oscar come miglior film straniero), ma anche di Russia e Oxford, dell’assurdità dei primi compiti alla scuola di regia, e del coraggio di credere nei propri sogni.
Viene difficile a volte farsi convincere del tutto dalla retorica di un regista che dopotutto è nato conte, ha vissuto a New York e Berlino, studiato a Pietroburgo e Oxford, e ha avuto la fortuna di fare l’assistente di Sir Richard Attenborough. Ottimismo e sicurezza di sé trasudano da ogni parola di FHvD. Non perdete tempo a fare cortometraggi come me! Seguite subito il vostro sogno!
I primi tempi alla scuola di cinema di Monaco di Baviera, racconta, sono stati deprimenti. L’insegnante del corso di regia li costringeva a scrivere quattordici sceneggiature per corti nelle prime otto settimane. Non potevamo copiare le trame, pena l’espulsione. Mi sentivo in una condizione di perenne pressione. Avevo la sensazione che la mia creatività venisse distrutta dall’aspetto tecnico dell’esercizio. L’idea dietro questo esercizio è che la creatività è un muscolo: va allenato. Ma per il mio maestro quel muscolo andava allenato non a piccoli passi, bensì sommergendolo di peso.
Gli studenti scoprirono poi che le sceneggiature, mai lette, venivano direttamente cestinate. Ma da quei quattordici prelievi di creatività venne fuori anche l’idea che molti anni dopo avrebbe consacrato Florian alla fama di regista da Oscar. Dopo aver scritto le prime tredici sceneggiature rimasi bloccato sulle ultime due. Una sera, per rilassarmi, misi su Beethoven. La sua musica mi fece uscire dal mio stato depressivo. Mi venne in mente un passo di una lettera di Lenin: “Non conosco niente di più bello dell’Appassionata e potrei ascoltarla ogni giorno. Musica meravigliosa, eterea. Mi chiedo: come può l’uomo creare simili meraviglie? Eppure non posso ascoltare musica troppo spesso. Influenza i miei nervi e mi fa venire voglia di dire sdolcinatezze e accarezzare la testa degli uomini che vivono in uno sporco inferno e riescono lo stesso a creare una tale bellezza. Ma di questi tempi uno non può andare avanti ad accarezzare le teste degli uomini perché la sua mano sarebbe strappata a morsi. Si deve schiacciare loro la testa – senza pietà – anche se in teoria noi siamo contro qualunque forma di oppressione dell’uomo…”. Pensai dunque a una storia su un uomo in guerra con l’umanità intera, con l’idea stessa di essere umano.
La sceneggiatura fu cestinata? Non proprio, se anni dopo FHvD potè recuperarla e rilavorarci su (nel monastero diretto dallo zio abate, ma questa è un’altra storia ndr). Inizialmente avevo pensato a un uomo che è ‘costretto’ ad ascoltare L’Appassionata. Quest’enfasi sull’ascolto ha provvisto il parallelo con la Stasi: dopotutto, erano persone che hanno passato la vita ad ascoltare gli altri.
Fra quell’inizio e la distribuzione del film nelle sale internazionali passarono anni. FHvD programmò un anno di ricerca sulla DDR, ma alla fine l’intero processo di produzione richiese cinque anni. Afferma: “Ero sicuro che sarebbe stato un bel film, era tutto nella mia testa. Non volevo realizzare un film mediocre, scendere a compromessi con il mercato”.
La tecnica di convincimento dei finanziatori non sembrerebbe delle migliori. Florian si portò dietro un corto col quale intendeva dimostrare le sue doti di regista e di “visualizzatore” di una storia. Vediamo il corto (quattro minuti in tutto), assiepati nella seconda saletta, su uno schermo piccolissimo. C’è un giovane che cammina leggendo il giornale (un mio compagno di scuola, adesso direttore di un ostello a Berlino). Camminando il giovane pesta una cacca di cane e la cosa gli dà molto fastidio. Si accorge allora che il colpevole dev’essere il dobermann ferocissimo rinchiuso nell’auto di fronte a lui. Il giovane comincia a fargli pernacchie e sberleffi, il dobermann si inferocisce ancora di più, ma il giovane si sente al sicuro. Improvvisamente, però, il dobermann riesce a spaccare il finestrino ed esce fuori dall’auto: comincia un inseguimento terrificante, a tratti comico, surreale. Titolo del corto: “Dobermann”. Noi comuni mortali della seconda saletta mormoriamo (possiamo mormorare, noi!) che i finanziatori non avevano tutti i torti a mostrarsi scettici. Per “Le vite degli altri” i finanziatori erano preoccupati soprattutto dal carattere intellettuale del film. C’è un’evidente contraddizione in questo atteggiamento: da un lato siamo la generazione col più alto tasso di gente istruita, dall’altro lato guardiamo i film meno intellettuali della storia del cinema.
FHvD è convinto di sé, della bontà di ciò che fa. Riesce ad assicurarsi alcuni fra i migliori attori di cinema e teatro tedeschi. Li paga il 20% di quello che prendono di solito; il resto, in azioni del film. Come hanno fatto tutti a credere che il film avrebbe venduto, a credere in lui? Merito della famosa visualizzazione. Il film, già tutto nella sua testa fotogramma per fotogramma (Non scrivo copioni. Disegno vignette come nei fumetti), li ha conquistati. FHvD ha voluto curare tutto nei minimi particolari: i costumi, l’atmosfera, la musica.
Il discorso prende una svolta drammatica quando FHvD ricorda Ulrich Mühe, l’attore che nel film impersona la spia e che è morto di cancro nel 2007. Cresciuto nella DDR, attore dissidente e uno dei promotori della rivolta dell’ottobre 1989, Mühe sviluppò un’ulcera gastrica a diciott’anni quando fu destinato a fare la guardia sul muro di Berlino. Se qualcuno cercava di scappare e lui non sparava, sarebbe finito in carcere; se sparava, non avrebbe più potuto vivere con se stesso. Il dilemma gli rovina lo stomaco, che gli viene asportato per metà. Anni dopo la caduta del Muro, Mühe scopre che c’era un file su di lui nei famigerati archivi della Stasi. Scopre anche che la prima moglie era un’informatrice. La storia ha strane analogie con “Le vite degli altri”. FHvd e Mühe ne parlano nel libro che contiene la sceneggiatura del film (pubblicato nel 2007 da Suhrkamp). Ne segue un processo con la moglie di Mühe e molta cattiva pubblicità. La gente non ha perdonato a Mühe quello che ha detto. Tornava a casa e trovava messaggi ingiuriosi in segreteria. lo stress e la tristezza hanno fatto risorgere il male. Se n’è andato poco dopo aver vinto l’Oscar.
Sa come raccontare una storia FHvD, ma non tutto in quello che dice lascia soddisfatti. Manca, ad esempio, una riflessione storica sulla DDR – a prescindere dal giudizio politico. Ciò che FHvD dice è il modo in cui egli ha letto la DDR. Riflettendo sul comunismo come ideologia, ho capito cosa quelle persone cercavano di dire e di esprimere: per loro era una fede. Sono cresciuto in una famiglia molto cattolica: la liberazione della spia nel film è ispirata alla mia personale ribellione contro la fede imposta dalla mia famiglia.
Forse perché gli ha dato la notorietà, forse perché per anni FHvD ha quasi vissuto nella DDR fittizia del suo personale set cinematografico e mentale, la DDR sembra quasi un luogo dell’anima piuttosto che un luogo storico. Frutto delle licenze poetiche che il film si concede sul piano storico, ma anche risultato della percezione personalissima di FHvD.
Ci sono certi luoghi – Oxford è uno di questi – che hanno una loro estetica speciale. Per me, dalla mia prima visita a Berlino Est, la DDR, come l’Unione Sovietica, erano questo: un mondo di immagini e colori diversi. In questa stanza dove siamo oggi i rossi sono rossi e i blu sono blu. Nella DDR tutto era come sbiadito e le forme erano diverse.
Scopriamo, alla fine di questo discorso, che la DDR come luogo dell’anima ha una sua speciale poeticità. Che per FHvD, dopo le sue amate Oxford e Pietroburgo, ha assurto a una speciale estetica, (come Venezia per Josif Brosdsky, penso, e vorrei chiedergli se è così e se ha letto Fondamenta degli incurabili: ma non c’è tempo di farlo). Quello che ho voluto fare ne “Le vite degli altri”, a parte raccontare una storia sull’ingiustizia, è stato creare bellezza in un film sulla DDR. Usciamo dalla seconda sala con alcuni interrogativi, molta scorta di bellezza, e un po’ di nostalgia per una storia di spie buone che sappiamo non ebbe mai luogo nella realtà.
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