Con un comunicato stampa del 15 ottobre il ministro Mariastella Gelmini rivendica «regole certe, affidabili e improntate al rigore» per gli atenei telematici. L’autorizzazione di ben undici “atenei telematici” fu concessa sei anni fa dal ministro Letizia Moratti. Nonostante la successiva opposizione del ministro Mussi, le fabbriche di lauree a pagamento hanno continuato a prosperare in assenza di un qualsiasi regolamento e negli ultimi tre anni il numero dei loro iscritti si è incrementato del 900%. Ma la truffa era evidente fin dall’inizio. Come dimostra l’eccellente editoriale del “Bollettino d’Ateneo” dell’Università di Catania (2003, n. 1-2) che Step1 ha deciso di ripubblicare.
Nello scorso febbraio [2003, NdR], la Commissione europea ha pubblicato un documento Sul ruolo delle università nell’Europa della conoscenza, invitando tutte le parti interessate a partecipare al dibattito. I toni del testo sono indiscutibilmente elevati. Si parte dal presupposto che le «università svolgono un ruolo particolarmente importante, in considerazione del loro tradizionale doppio compito di ricerca e d’insegnamento, del loro ruolo crescente nel complesso processo dell’innovazione e degli altri contributi che apportano alla concorrenzialità dell’economia e alla coesione sociale, ad esempio per quanto riguarda il loro ruolo nella vita della città e in materia di sviluppo regionale». Si mette inoltre in rilievo che «la creazione di un’Europa fondata sulla conoscenza rappresenta per le università una fonte di opportunità, ma anche considerevoli sfide.
Le università operano infatti in un ambiente sempre più globalizzato, in evoluzione costante, segnato da una concorrenza crescente nell’attirare e mantenere i migliori talenti e dall’emergere di nuove necessità cui sono chiamate a rispondere». Né si nascondono le difficoltà, giacché «In genere le università europee dispongono di vantaggi e mezzi finanziari inferiori rispetto alle loro controparti di altri paesi sviluppati, in particolare degli Stati Uniti. Si pone pertanto il problema della loro capacità di fare concorrenza alle migliori università del mondo garantendo un livello d’eccellenza duraturo. È questa una questione particolarmente attuale nella prospettiva dell’allargamento, vista la situazione spesso difficile delle università dei paesi candidati in termini di risorse umane e di mezzi finanziari».
Eppure, parafrasando una celebre espressione, verrebbe da dire che mentre al Lussemburgo si cercava la pietra filosofale, a Roma senza troppo clamore si batteva la moneta legale. Ci riferiamo a un decreto ministeriale emanato quasi di soppiatto, al punto che i rettori delle università italiane non ne erano stati neanche messi al corrente. Il decreto prevede che i titoli accademici (quindi le lauree, i master e persino i dottorati) possano essere rilasciati da istituzioni universitarie, create da soggetti pubblici e privati, che prenderanno il nome di università telematiche.
Un po’ come nei romanzi horror-fantasy di Philip K. Dick e nelle atmosfere allucinate dei film che ne derivano (da “Blade Runner” a “Minority Report” a “The Matrix”), fondati sullo sviluppo di forme artificiali dotate della stessa sensibilità dell’uomo, sull’invadenza del potere politico nei corpi e nelle menti, sulla difficoltà di distinguere cosa è umano e cosa non lo è, con tutti gli incubi e i demoni che ne conseguono, siamo tenuti ad analizzare i dettagli di questa creatura ministeriale un po’ androide: “Criteri e procedure di accreditamento dei corsi di studio a distanza delle università statali e non statali e delle istituzioni universitarie abilitate a rilasciare titoli accademici” (Decreto 17 aprile 2003, G. U. n. 98, del 29-4-2003).
Il decreto fissa i criteri e le procedure di accreditamento dei corsi di studio a distanza, trasformando in soggetto universitario a pieno titolo quella che finora era stata una sperimentazione condotta da alcune università. La qualifica di ‘università telematica’ verrà infatti conferita da un comitato di esperti composto da sette persone: tre designate dal ministro dell’Istruzione, tre dal ministro per l’Innovazione e le tecnologie, e un Presidente scelto previa intesa tra i ministri. Le attuali università sono lasciate completamente da parte, mentre al Consiglio universitario nazionale si attribuisce soltanto la facoltà di esprimere un parere. Ottenuto il riconoscimento, tutto ministeriale, qualsiasi ‘università telematica’ sarà libera di reclutare professori, tenere corsi e rilasciare titoli accademici, al di fuori di ogni verifica da parte del sistema universitario vero e proprio.
Oltre alle riserve espresse dalla Crui, secondo alcuni critici: «Si tratta di un altro poderoso contributo alla privatizzazione dell’università e soprattutto alla degradazione della ricerca di alto livello […]. Un’università è infatti un’entità delicatissima, perché ha bisogno di due cose che si accumulano coi decenni ma si distruggono con nulla: una collettività qualificata e omogenea di persone e un know how specifico, in cui l’insegnamento è il precipitato faticoso di una cosa pregiata e facilmente degradabile. Questo qualcosa si chiama ‘ricerca’. Non si conoscono, nel mondo civile, università che non abbiano la ricerca come propria centrale energetica. L’invenzione delle università telematiche ci libera da questi fastidiosi dettagli, e invita tutti, anche i più disinvolti, a darsi da fare […] per acchiappare per contratto i loro ‘utenti finali’. Poveri ‘utenti finali’, povera ricerca, povero paese…».
Non dubitiamo che appelli accorati come quello qui riportato (Raffaele Simone su “La Stampa” del 30 maggio 2003) si attireranno l’accusa di passatismo. Ma resta la considerazione che università è un ‘logo’ costruito in diversi secoli di storia: speriamo che non basti qualche colpo di piccone ministeriale per sostituire lo storico sistema consolidato da secoli di tradizione con qualche improvvisata struttura di tipo aziendalistico. Ciò non vuol dire che non sia utile usare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per migliorare qualitativamente l’insegnamento universitario.
La discussione sulle potenzialità dell’e-learning è tutta un’altra cosa. In un recente incontro organizzato dalla Fondazione Ibm e dall’università di Milano- Bicocca, alcuni dei luoghi comuni e dei miti sull’insegnamento a distanza sono stati efficacemente smantellati. Non è vero, ad esempio, che l’insegnamento a distanza è ‘meno costoso’. Per essere una cosa seria, esso richiede un grande lavoro di progettazione e realizzazione delle infrastrutture e soprattutto dei materiali didattici. Per la costruzione di una lezione online, in forma di ipertesti e multimedia, servono competenze supplementari e molto tempo, molta intelligenza, moltissimo lavoro umano.
Né si può credere che, una volta prodotto un software didattico buono per tutti, il lavoro sia completato. Se si vuole insegnare seriamente, non si tratta solo di distribuire cd-rom e dispense elettroniche, ma di supplire all’assenza di interazione faccia a faccia con una buona dose di relazioni online. Significa, ad esempio, che ci vogliono molti docenti tutor sufficientemente qualificati per rispondere alle richieste di chiarimento inviate dagli studenti. Non è detto che tutto ciò sia meno costoso del sistema tradizionale.
L’università italiana non è, o per fortuna non è ancora, la Scuola RadioElettra; si tratta dunque di saper miscelare sapientemente il vecchio col nuovo. Al ministro Letizia Moratti va in conclusione il nostro consiglio di leggere, nel tempo libero che riuscisse a ricavare dagli impegni del suo altissimo ufficio, “Do Androids Dream of Electric Sheep?” di Philip K. Dick. Persino la riflessione su un grande autore di fantascienza può servir meglio le sorti dell’università italiana di quanto faccia la persistenza di una vulgata tecnologico-aziendalista che mette sconforto.
[Comparso, col titolo “Do Androids”, come editoriale del “Bollettino d’Ateneo” dell’Università di Catania, anno 2003, numero 1-2]
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