«Mamma, che cosa si prova a morire così?» «Niente si prova, sono attimi». Peppino Impastato è ancora bambino, ne “I cento passi”, quando pone questa domanda a Felicia, sua madre, quando le chiede cos’è che si prova a morire ammazzati dalla mafia. Di dialoghi come questi, che fanno gelare il sangue, quel film è pieno.
La scena di Peppino che trascina il fratello per cento passi, da casa Impastato a casa Badalamenti.
A dieci anni dall’uscita nelle sale cinematografiche, la pellicola è diventata un cult, la trasposizione sullo schermo della lotta alla mafia.
Probabilmente per queste ragioni s’è deciso di proiettarla, ieri sera, in piazza Dante, teatro della sparatoria nella quale è rimasta coinvolta Laura Salafia, la studentessa della facoltà di Lettere e Filosofia di Catania che passava per caso, appena uscita da un esame, dall’incrocio tra via di Sangiuliano e la piazza, dove Andrea Rizzotti, cinquantaquattrenne custode della Chiesa di San Nicolò, ha esploso cinque colpi di pistola contro Maurizio Gravino, pregiudicato. Se in un primo momento s’era parlato di un regolamento dei conti di stampo mafioso, la pista è stata poi esclusa dagli inquirenti che, anche in base alle confessioni rese da Rizzotti, hanno ragione di credere si sia trattato di un tentativo di risolvere una questione personale.
Che c’entri la mafia oppure no, la sola idea che si possa finire in una sparatoria andando all’università ha stimolato gli studenti ad organizzare eventi che hanno lo scopo di sottolineare la loro avversità a qualunque tipo di atto criminale. È nato su Facebook nel giro di poche ore “Sveglia Catania“, così come in pochi giorni l’idea di trasformare piazza Dante in un’arena è diventata una realtà, grazie al passaparola sui social network e al sostegno del Comune di Catania, della Facoltà di Lettere e di moltissime associazioni studentesche.
Molti gli ospiti che, prima dell’inizio del film, hanno dato il loro contributo di parole ed esperienze.
Da Pino Maniaci, proprietario e conduttore del telegiornale di Telejato, all’attrice Lucia Sardo (la madre di Peppino nel film), secondo la quale quella di ieri sera doveva essere «un’occasione per andare oltre piazza Dante, oltre Catania e oltre la Sicilia», perché «se c’è un cancro nel dito mignolo di un piede, allora c’è un cancro in tutto il corpo e bisogna curarlo in toto».
E poi Dario Montana, referente di Libera a Catania. Il cognome suona come già sentito: è il fratello del commissario Giuseppe Montana, «ucciso dalla mafia venticinque anni fa». «Dobbiamo rifiutare la legalità di chi vuole fare soltanto i suoi interessi», ha spiegato alle centinaia di intervenuti. «La legalità vera è quella di chi pensa alle persone che muoiono ogni anno, per mano della mafia e anche sul lavoro». Ma anche quella di chi pensa ai suoi morti, e per tenerne viva la memoria li racconta, come Ninetta Burgio, madre di Pierantonio Sandri. Girava per la Sicilia con una foto di suo figlio, sperando di sapere qualcosa sulla fine che aveva fatto. Adesso quella foto non ce l’ha più, perché il cadavere di Pierantonio è stato ritrovato. «S’era appena diplomato in odontotecnica e una decina di giorni dopo la sua sparizione avrebbe dovuto fare i test d’ammissione ad Odontoiatria. Studiava qua, a Catania, da Niscemi, e mi chiamava sempre, per dirmi qualunque cosa facesse. Per questo ero molto preoccupata da subito per il fatto che quel giorno è uscito di casa e non ha telefonato per dire che tardava a rientrare. Ho aspettato la chiamata per tutta la notte, ma non è mai arrivata. Lui non è più rientrato». Pierantonio era stato rapito da due suoi coetanei che l’hanno strangolato con una cinghia. «Faccio l’insegnante», ha continuato Ninetta, «uno di loro era anche stato un mio alunno, lo conoscevo». Tra le lacrime, l’assassino ha confessato: Pierantonio non c’entrava niente con la mafia, però, passando per una strada, aveva visto una macchina bruciare. «L’hanno ammazzato perché avevano paura che lo raccontasse. Il suo corpo all’inizio l’avevano lasciato in mezzo alla campagna, poi hanno pensato che dava troppo nell’occhio, l’hanno trascinato per trenta metri e hanno scavato una buca di cinquanta centimetri. Il terreno, a settembre, era ancora troppo duro. Quando l’hanno ritrovato, dopo quattordici anni di ricerche, la sua camicia era ancora intatta. Il giorno del funerale non è stato un giorno di lutto, ma uno di festa: avevo di nuovo mio figlio, e l’avevo riavuto grazie soltanto all’aiuto della giustizia, perché a Niscemi sono stata lasciata da sola». La bara di Pierantonio è stata portata a spalla da chi s’era occupato di cercarlo, e da Don Luigi Ciotti, arrivato a Niscemi appositamente. «Quando siamo arrivati a cimitero, il cielo ha cominciato a piangere. Ho letto su un giornale che la faccia di Don Ciotti, in quel momento, somigliava alla faccia di Cristo sotto il peso della croce».
Una testimonianza toccante, accolta con un silenzio attento da parte di tutta la piazza. Silenzio che s’è mantenuto tale fino alla fine del film, quando, alla scena del corteo in cui si grida «Peppino è vivo e lotta insieme a noi», è scattato un applauso spontaneo.
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