Le rivolte nelle carceri, l’ipotesi di un ruolo della mafia «Boss interessati a creare tensione, ma usando altri»

Circa una ventina di strutture coinvolte, 12 detenuti morti e 40 poliziotti feriti. Sono i numeri delle rivolte nelle carceri italiane che in Sicilia hanno interessato i penitenziari di Palermo, Trapani, Siracusa e lambito Catania. Un effetto domino su cui le procure di mezza Italia stanno indagando per ricostruirne la genesi e provare a dare una risposta alla domanda che, dal primo momento, ha iniziato a serpeggiare: qual è stato il ruolo della criminalità organizzata?

Tra chi ha pochi dubbi c’è Giovanni Mazzone, criminologo con una lunga esperienza alla guida di penitenziari, molti dei quali siciliani. Da Agrigento a Sciacca, da Noto a Favignana, e poi Catania e Modica. «Quella di una regia esterna da parte della criminalità organizzata mi sembra un’ipotesi molto concreta – spiega a MeridioNews -. Dico esterna perché, a conti fatti, gli esponenti mafiosi hanno assistito alle sommosse, restando spettatori, a eccezione del caso di Foggia». Lì a partecipare e prendere parte all’evasione sono stati anche figure ritenute legate alla Sacra corona unita. «Parliamo di una criminalità diversa rispetto a Cosa nostra o alla ‘Ndrangheta, con meno canoni e strutturazione interna e richiami alla criminalità violenta comune», sottolinea Mazzone. 

Tornando a ciò che è accaduto nei reparti presi d’assalto, alcuni dei quali distrutti al punto da richiedere il trasferimento dei detenuti in altre sezioni, a colpire è stata la violenza dei comportamenti. «Ancora adesso fatico a capire come sia stato possibile sfondare le porte blindate o i cancelli di sbarramento nei corridoi – aggiunge l’esperto – Non è momento per puntare il dito contro nessuno, ma non si possono escludere possibili negligenze da parte di chi era deputato a controllare». 

Un dato sicuramente sospetto è stato il momento in cui sono partite le rivolte. «In alcuni casi, i disordini sono iniziati dopo il rientro nelle celle a fine pomeriggio. Un fatto strano: sarebbe stato più comprensibile se fossero partite quando i detenuti si trovavano negli spazi comuni». Altrettanto strano, secondo Mazzone, è stata la facilità d’accesso alle infermerie. «In carcere i farmaci sono beni talmente ambiti da essere usati come merce di scambio nel mercato nero interno, ma sono altrettanto protetti. Leggere di un numero così elevato di morti per overdose desta perplessità».

Dubbi che tuttavia, fin qui, non sembrano fare emergere un ruolo attivo dei boss nell’organizzazione. A fornire una prospettiva diversa è proprio Mazzone, richiamando i recenti sviluppi giurisprudenziali sui reati ostativi e la possibilità, in linea teorica, di concedere anche ai capimafia l’accesso alle premialità previste dal sistema penitenziario. «Nel momento in cui tribunali di sorveglianza sono chiamati a valutare i singoli casi si è registrato un irrigidimento nelle decisioni, che di certo non ha fatto piacere alla criminalità organizzata – commenta Mazzone -. In questo senso, le rivolte potrebbero avere avuto l’obiettivo di fare pressione sulla politica e l’amministrazione penitenziaria». Perché non partecipare direttamente? «Per la possibilità di ambire alla riduzione delle pene per buona condotta e la possibilità di contare su una massa di detenuti comuni, molti dei quali appartenenti alla manovalanza e tossicodipendenti, a fare da braccio oeprativo», replica Mazzone.

Qualsiasi riflessione riguardante la strumentalizzazione delle proteste non può comunque fare soprassedere sulle condizioni difficili che i detenuti vivono in larga parte dei penitenziari italiani. «Quello del sovraffollamento è un problema reale e concreto, che in una situazione d’emergenza come quella attuale può pesare ancora di più. Per questo da parte mia – conclude Mazzone – andrebbero valutate misure alternative alla detenzione carceraria per chi dovrebbe trascorrere in cella ancora pochi mesi o poco più».

Simone Olivelli

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