Ci sono canzoni legate a momenti particolari, canzoni che le ascolti e ti emozionano, ti fanno sorridere, pensare, rattristare. «Perché la musica è emozione». Sembra un cliché, ma se lo dice chi ha cantato “L’uomo più furbo” forse bisogna crederci. Max Gazzé non è quello che potremmo definire un cantante mainstream. Più noto di alcuni e molto meno apprezzato di altri, è nei negozi di dischi con l’ultimo album di inediti, “Quindi?”, anticipato dal singolo “Mentre dormi”, colonna sonora del film “Basilicata coast to coast”.
Il tema del Salone Internazionale del Libro di Torino di quest’anno è la memoria, quella svelata, dichiarata, raccontata. E di ricordi, tra le altre cose, ha parlato il cantautore romano, tra discettazioni filosofiche e teoremi di fisica: «Tipo, quando chiudi il frigorifero ti domandi sempre se la luce si spegne davvero oppure no. E non lo saprai mai, perché per scoprirlo lo devi aprire, no?».
Come ridurre la metafisica al quotidiano in una semplice mossa. In mezzo a discorsi sulla tecnologia, le fotografie, la Formula Uno («Di cui sono un grande appassionato, ma non ve ne frega niente»), Gazzé ha spiegato il suo punto di vista sul cambiamento, che «esiste e per vivere al suo interno bisogna integrarcisi», e sulla vita, perché «possiamo vivere il presente, ma solo attraverso quello che c’è stato prima; e no, non è passato, giacché il passato non esiste». Artista originale, ha tentato anche di descrivere la sua idea di arte: «L’arte in sé è riconoscibile attraverso un oggetto: è traduzione in artefatto di una condizione. L’artefatto, però, a sua volta, deve riportarmi alla condizione emotiva iniziale, quella che mi ha portato a produrlo. A quel punto, io stesso divento opera d’arte. Io sono opera d’arte se riesco a tradurre sensazioni che a loro volta danno sensazioni». Semplificando: «La Gioconda non sarebbe un’opera d’arte se non ci fossi tu ad osservarla e a giudicarla tale». Filosofeggiando: «L’osservatore è la cosa che osserva». Andando fuori tema: «Adamo sapeva cos’erano le cose a prescindere dal modo di chiamarle, e se non state capendo un cazzo del mio discorso, tranquilli, è lo stesso per me».
Ma, tornando alla musica, «quando scrivi una canzone lo fai per trasferire un’emozione, e non c’è premeditazione. È così e basta. L’atto creativo è uno stato di trance». Un vero e proprio raptus, «che ti prende nel momento meno opportuno, quando hai passato una giornata stancante al massimo, sei a letto, in bilico tra il sonno e la veglia, ed eccola là l’illuminazione, la cosa che non puoi ignorare, la melodia». E dopo anni di cd incisi non cambia, «solo che interviene l’esperienza, che migliora il risultato», nei limiti del possibile, giacché per ideare una canzone bisogna pensarci, «e il pensiero mente rispetto alla creazione, media, limita». Eppure c’è una maniera per mantenersi il più fedeli possibili al “peccato originale”. «Io ho scelto di tradire al minimo l’atto creativo. Allontanandomi dalle pippe mentali della produzione l’ho fatto coscientemente, ignorando tutto ciò che ha a che vedere coi suoni moderni e commerciali». Cedere alle esigenze del mercato sarebbe come legare qualcosa «che dovrebbe essere libero da condizionamenti». E a questo punto si torna al discorso iniziale, a quello sulle emozioni, «vere e proprie droghe». Reazioni chimiche, «niente più di questo, ma non dico per banalizzarle». «Essendo l’emozione una droga, ne siamo dipendenti. E anche assuefatti. Ci assuefaciamo ai bei ricordi, e tendiamo a nasconderli, invece vanno portati in alto, come stendardi». Per quanto scontato, «un uomo che non sappia cos’è la tristezza non saprebbe di essere felice, e si dispiacerebbe per questo. È un circolo vizioso, un meraviglioso circolo vizioso».
E la bellezza della realizzazione pratica di un discorso simile s’è resa evidente in un attimo: microfono al pubblico, lo prende in mano un bambino. «Non è che canteresti una canzone per la mia mamma?». Gazzé l’ha accontentato. E non ha fatto una strofa sola, ma proprio un pezzo intero, l’ultimo singolo. Per definire l’emozione data da una canzone, qualcuno avrebbe dovuto immortalare gli occhi lucidi di quella madre che, col bambino al collo, si sentiva dedicare: «Con speranza e devozione io ti voglio celebrare, come un prete sull’altare…».
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