Quando le truppe alleate facevano il loro ingresso a Catania, il 5 agosto del 1943, Santa Cappadonna aveva otto anni. Ne sono passati 72 da quando i suoi genitori – assieme a centinaia di altri catanesi – la portavano tra le rovine dell’Anfiteatro romano o nel fossato del Castello Ursino. Pochi istanti per raccogliere lo stretto indispensabile, poi la fuga assieme alle sorelle, ai fratelli e ai vicini. «Ci rifugiavamo qua perché mio padre diceva che era un posto sicuro», racconta la donna, che il mese scorso ha compiuto 80 anni.
«Avevamo paura – confessa – ma ne avevano di più i nostri genitori che capivano cosa succedeva fuori». Quando l’allarme non permetteva di arrivare fino agli antichi resti di età romana, il riparo era offerto dalle mura del maniero di piazza Federico di Svevia. «Erano momenti tristi. Non perché eravamo bambini, ma ci spaventavamo», riflette la signora Santa.
La seconda guerra mondiale. La fuga, spesso di notte, verso quella che anche lei chiama Catania vecchia. Le ore in attesa di poter tornare a casa. I ricordi di bambina si susseguono con qualche emozione. Un lume, un fuoco di fortuna acceso tra gli antichi archi, qualche lampada elettrica. «Non c’era niente», prosegue. Ma si faceva fronte comune, davanti ai timori di una guerra che da lì a pochi mesi avrebbe subito una svolta. «Si stava insieme – conclude – Fino a quando non finiva il bombardamento».
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