LbM: Match Point

Perché Chris non prende posizione? Perché mente con tanta leggerezza? Perché non sa rinunciare a niente? Perché non ha rispetto per nessuno? Perché?
Perché è ambizioso, ingordo e ipocrita; perché ama competere e vincere ed ama la bella vita. Tutto nei termini in cui ognuno di noi può realmente disporre del proprio destino, può scegliere come essere fino in fondo. Nei termini in cui si crede nell’esistenza del libero arbitrio. Nei termini in cui la parola fortuna ha un significato univoco ed universale. Ma in questo film, Woody Allen non dà alla fortuna, al caso, soltanto il senso positivo che tendiamo ad attribuirle.

Match point non parla di una sola cosa e i temi che affronta, come in tutte le grandi storie, sono molti e ben equilibrati. Il senso di colpa, il karma, la fortuna, l’irresponsabilità, la passione annientatrice e, alla fine, l’impossibilità di sfuggire al rimorso. Sono finiti i tempi del girone dei dannati surreale e comico del minore “Harry a pezzi”, dove il protagonista incontra l’uomo che paga l’orrenda colpa di aver inventato gli infissi in alluminio anodizzato (ben gli sta). In match point si tratta dell’inferno vero e solitario del rimorso, un posto all’inferno che Chris, il bravissimo Jonathan Rhys-Meyers, ha cercato ed ottenuto, lucidamente, con dolcezza e avidità, pianificando tutto, con la speranza neanche tanto inconscia di essere alla fine punito dagli eventi. Ma non è la galera, la legge umana, il punto, così Woody Allen lascia che sia il caso a salvare il protagonista e nello stesso tempo a distruggerlo, senza sconti, senza pietà, evitandogli si la galera ma imprigionandolo in se stesso.

Con il pessimismo della ragione di sempre, amplificato dall’età, Woody Allen torna con questo film allo splendore di “crimini e misfatti” e di “pallottole su Broadway” e ci parla dritto alla coscienza. Lo stesso autore de “il dittatore dello stato libero di Bananas” e di “prendi i soldi e scappa”, che ha sempre meno da ridere e sempre più coscienza di se stesso e dei meccanismi che governano l’esistenza dell’uomo, ci racconta la dualità dell’esistenza, il conflitto dell’uomo con la propria parte oscura, con un film classico, molto ben costruito, narrativamente impeccabile, con un personaggio in totale conflitto con se stesso, come piace a lui. Questa volta però fa sul serio. Questa volta non si tratta di nevrosi, ma di autentica disperazione di esistere. Il protagonista, al contrario di altri film, non gli assomiglia, ma vive di vita propria, portando comunque con se, sin dall’inizio, e poi per sempre, il dramma dei personaggi di Woody Allen e degli arrampicatori sociali di tutti i tempi: il fatto di essere perennemente fuori luogo, sopratutto con se stessi.

Gran narratore di storie, anche lui probabilmente amante del denaro come il suo protagonista, Woody Allen non si riposa mai ed ogni anno o quasi sforna un film, con alti e bassi certo, ma senza mai farsi divorare dalla spaventosa macchina Hollywoodiana; segno di sublime intelligenza. L’intelligenza che ha sempre contraddistinto i suoi film e le sue scelte anche nei momenti difficili, in questo film associa ad un ritrovato equilibrio ed al coraggio delle passioni, facendo un altro passo verso i grandi maestri europei ai quali deve molto.
Poco da dire sulla ricerca delle immagini, ambito che Woody Allen frequenta sempre con una certa cautela, se non fosse per la fotografia impeccabile, piena di sfumature e straordinariamente profonda. In compenso la regia è asciutta e incollata al racconto. Le inquadrature sono classiche e rassicuranti come la vita della borghesia che raccontano. Un film dove dominano i campi medi, mai uno più del necessario e dove è la bellezza delle cose dei ricchi a riempire l’immagine, lo sfondo e la perfezione del cast a dargli vita.

Ogni movimento ed ogni sguardo mancato di Jonathan Rhys-Meyers trasuda incoscienza, fragilità e passione; ogni poro della pelle di Scarlett Johansson di sensualità e bravura. Del resto quello di Woody Allen è sempre stato più un cinema di scrittore e d’attore che d’immagine. Un cinema dove tutto è superfluo oltre l’uomo, dove tutto è costruito sui personaggi e sulla trama, come nelle tragedie greche, per questo immortali, come i suoi film, specialmente questo.

Carlo Lo Giudice

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