Welcome to the machine. Benvenuto nel sistema, si diceva negli anni ’70. Ed era una condanna, un’accusa di conformismo verso chi accettava lavori normali, cioè quasi tutti. Bisogna fare sistema, si dice oggi. Ed è una miriade di convegni e dibattiti ad accompagnare il nuovo slogan.
Ma in concreto quale sistema, poi, abbiamo creato e coltivato nella nostra città?
Da qualche parte nella memoria c’è la foto di un giovane operaio di parecchi anni fa, orgoglioso davanti alla sua fabbrica nella zona industriale di Catania: fiero di lavorare. Non rivendicava nulla, affermava. Io sono anche il mio lavoro. Fare sistema, nella nostra città, dovrebbe significare allo stesso modo coltivare e proteggere le culture e le professionalità formate sui luoghi di lavoro. Perchè una società, una città, è anche il suo lavoro. Negli ultimi anni abbiamo invece distrutto un patrimonio enorme. Non è la crisi economica, non soltanto quella, ad aver disgregato e disperso una vera ricchezza.
Il caso Sigenco ad esempio: una compagine lavorativa compatta, ben organizzata, con belle qualità individuali e collettive. Una tradizione nell’edilizia industriale capace di competere con le migliori imprese nazionali. Aeroporti, gallerie e strade in costruzione. Tutto disperso per un fallimento su cui pende l’accusa giudiziale, ancora da verificare, di bancarotta fraudolenta. I suoi dipendenti, però, in gran parte non sono transitati nelle imprese che hanno acquisito il pacchetto di appalto. Non è la crisi. E’ la facilità con cui si trascura l’importanza delle esperienze lavorative cumulate nel sistema città e si abbandonano le imprese.
E’ l’indifferenza di fronte alla chiusura, ad esempio, di un ente di formazione con decine e decine di dipendenti, di una compagnia aerea, Wind Jet, o di un’impresa di grande distribuzione come Aligrup. Le ali non volano più, nè quelle del vento nè quelle dei banconi da supermercato. Di Wind Jet non si è saputo più nulla, eppure altre società straniere sembrano resistere sul mercato, a prezzi persino più bassi. Non si conoscono progetti alternativi. Di Aligrup si è fatto uno spezzatino. Alcuni punti vendita ceduti, altri chiusi, alcune decine di lavoratori di qua o di là ed altri ad attendere. E’ stata tutta una rincorsa, nel migliore dei casi, a discutere di numeri e di meccanismi per indennità varie a protezione dei lavoratori ma senza una visione globale. In settori che non erano esattamente in crisi di mercato e che quindi avrebbero potuto essere forse recuperati con una strategia d’insieme.
In mezzo, i lavoratori. Sono tutte professionalità che arricchivano la città e che nella diaspora rischiano di restare irrimediabilmente perdute. Il danno subito è enorme. Il difetto di progetto politico economico è evidente. Una via d’uscita possibile: fare sistema sul serio, compatti, per favorire il passaggio di proprietà di aziende malate soltanto per la loro gestione e non per il settore di attività, evitando la loro frammentazione. Magari con quelle stesse risorse pubbliche fin qui utilizzate per sussidi individuali a termine. E pensare, anche, a nuovi progetti. Perchè la città avrebbe bisogno di riscoprire e proteggere una delle sue migliori risorse: il suo capitale umano.
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