L’avocado amaro dei Pearl Jam

Eddie non ha più la cresta da guerriero maori. I coltelli ora riposano nelle fondine e gli atti di rivolta sono lasciati indietro. Bush ha vinto di nuovo e per i Pearl Jam è il momento di fare i conti con la propria identità e con quella di un paese intero che ha scelto di non “cambiare” (come invitava un celebre slogan elettorale). Così, alle lame taglienti di “Riot Act”, Vedder & soci sostituiscono, per questo ritorno discografico targato J Records, una valutazione delle cose forse più matura – d’obbligo, visto e considerato che i nostri sono ormai dei quarantenni – e allo stesso tempo anche una ricerca e un recupero di se e del proprio tragitto artistico. Dunque non è certo un caso che il disco si intitoli solo Pearl Jam e che, rispetto al recente passaggio costellato dagli umori agrodolci di “Binaural” e dai cazzotti rivoltosi di “Riot Act”, quello di oggi sia un album proprio alla Pearl Jam dalla prima all’ultima traccia: la rabbia e lo splendore, il profumo degli strumenti e il rintocco delle parole. E ci sarebbe da scommettere che chiunque ascolti per la prima volta Life Wasted viva un personalissimo viaggio nel passato: quelle chitarre importanti, quella “dignità” riacquistata da Mike McCready coi suoi assolo (ultimamente sacrificati) e quella carica di Eddie sono brandelli di un’anima pearl jam che ha vagato a lungo, s’è mascherata e che ora ritorna all’ovile più autentica di prima. In “Life Wasted” entusiasma anche una risatina di Eddie che, assieme al pessimismo beffardo della seguente World Wide Suicide (ottimo gioco linguistico) e al punk di Comatose, sembra suggerire un ulteriore elemento di riflessione: e se i Pearl Jam avessero imbracciato le armi dell’(auto)ironia? E’ una possibilità rafforzata anche dalla scelta shock di farsi “rappresentare” in copertina da un avocado (la nonna di Eddie con cosa la faceva la sua marmellata allucinogena?) e dalla foto della band, all’interno del package azzurro cielo, a mò di zombi da museo delle cere.

Quando le note passano a Marker In The Sand e alla sua morbidezza, Vedder ci racconta la chiacchierata con il suo Dio: avrà Lui delle risposte convincenti su quello strano ”uccidere in nome di Dio”? Si, probabile. Ma Ed rimane comunque a bocca asciutta, senza risposte, in quella che rimane una specie di preghiera al vento. Il fragile folk di Parachutes sembra proseguire su questo non riuscire a smettere di interrogarsi: ”e la guerra, apri il cielo e dimmi a cosa serve”. E lo fa anche la ballatona Come Back: ”se continuerò con le mani distese di fronte a me, la tua luce riuscirà a passarci attraverso?”.

I Pearl Jam suonano come fosse la prima o l’ultima volta, insomma col sangue. Ciò che convince è proprio quella voglia di arrivare al cuore della questione (non è un caso l’avocado che nella confezione si spoglia del suo nocciolo). Con questo spirito vivono brani come Unemplyable, sul dramma della disoccupazione, e il rock soffice di Gone, dedicata a quel sogno americano che non c’è più e alla delusione in seguito alla rielezione di Bush. L’intro magnifico di Inside Job, poi, lascia a bocca aperta: chitarra acustica di Stone Gossard, piano di Boom Gaspard, danza al basso di Jeff Ament e voce splendida di Vedder: ”Non perderò la mia fede (…) quello che scelgo di essere è quello che sono”; si passa dalle domande a una certezza. L’entrata delle rullate di Cameron trasformano – e proprio il caso di dirlo – il brano in un’appassionante fuga rock, con chitarre distorte alla “Ten” e urla di Vedder, per un finale di speranza come da tempo non se ne vedeva nei dischi dei PJ. La delusione, si sa, è sempre stata musa meravigliosa per opere meravigliose. Ma anche – è questo il caso – il superamento di essa sembra una buona ispiratrice. E allora “udite udite”, i Pearl Jam sono tornati e già va meglio.

Riccardo Marra

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