L’OPINIONE/ UNA DIGRESSIONE STORICA SULLO STATUTO AUTONOMISTICO DELLA NOSTRA ISOLA. PER ARRIVARE ALLA CONCLUSIONE CHE, SENZA LA PARTECIPAZIONE DEL GRANDI MASSE E DEI COMUNI, L’ISTITUTO AUTONOMISTA E’ DESTINATO A CONTINUI FALLIMENTI
Da qualche tempo si è aperto il dibattito sullo Statuto autonomistico siciliano e la su specialità, tema sul quale ci piace intervenire perché di grande interesse. E nel tentare una considerazione ci riferiremo ad alcune questioni concrete, piuttosto che intrattenere la discussione sui massimi sistemi.
Prendiamo ad esempio l’ultimo prodotto legislativo definito Piano Giovani. Abbiamo assistito a scene indegne di un Paese civile vedendo fole di ragazzi che si accalcavano agli sportelli dell’ufficio dell’impiego (ex ufficio di collocamento) per avere i documenti richiesti dalla burocrazia per la partecipazione al concorso, senza che il bando li richiedesse.
Ora, a parte la banale considerazione sull’utilità per la Regione di avere un apparato amministrativo di circa 16-17 mila dipendenti – peraltro con mille e 800 dirigenti, inquadrati nelle diverse fasce e pertanto non utilizzabili agli sportelli perché lavoro poco decoroso per un dirigente – chi dirige tale ufficio non si è acconciato ad approntare per tempo gli organici di questi sportelli nella previsione della ressa che immancabilmente si sarebbe verificata.
Previsione non troppo azzardata atteso che la disoccupazione giovanile in Sicilia è superiore al 50 per cento: un giovane su due è disoccupato, a parte quelli sotto occupati o precari, per non ricordare quelli che un lavoro non lo cercano più, una intera generazione.
Il riferimento a questo caso è solo per accennare a qualcosa che ha che fare con l’attualità. Del resto, esistono tanti altri episodi di inefficienze, sprechi, ruberie, dissipazioni e clientelismi: dalla formazione professionale gestita dalle società per azioni ai finanziamenti europei per lo sviluppo rurale, dagli impianti eolici alla privatizzazione dell’acqua.
Non è il caso di dilungarsi oltre, perché il nostro giornale è stato sempre puntuale nel denunciare ognuna di queste vergogne. Lo scopo di questo intervento non è quello di aggiungere un’altra lamentela o fare l’ennesima denuncia scandalistica. E’, piuttosto, quello di evidenziare le ragioni strutturali che hanno determinato fin dalle sue origini l’andamento dell’Autonomia speciale.
Per segnalare – tanto per cominciare – che nell’ottica di chi ne ha disegnato il profilo dei destinatari non c’erano di sicuro i ceti popolari della Sicilia. Tant’è che non è stato nemmeno lontanamente ipotizzato l’eventuale interesse popolare alle questioni dell’autogestione: basti pensare che fra le possibili forme di partecipazione popolare alle decisioni generali non è stato nemmeno previsto l’istituto del referendum, né consultivo, né propositivo, né abrogativo. Niente: il popolo non conta, ha solo il diritto di delegare le decisioni alla ‘borghesia di gestione’.
Quindi per capire meglio la natura dell’Autonomia mettiamo alcuni punti fermi. Le origini e la concezione dello Statuto sono appannaggio della borghesia siciliana, così come le precedenti esperienze storiche a partire dallo Statuto del 1812, il primo Statuto autonomistico della Sicilia. Già allora la concessione del potere di autogestione fu appannaggio della nobiltà del tempo, così come la reiterazione del 1848 fu appannaggio della borghesia di quella stagione.
A maggior ragione lo Statuto vigente, che data 1946, è stato conseguente alle condizioni – in forma di taciti accordi parasociali – del trattato di Cassibile del 1943, dove la fece da protagonista la mafia sostenuta dalla mallevadoria degli Stati Uniti d’America. Figurarsi se l’interesse popolare poteva lontanamente balenare durante i negoziati che ne precedettero l’esito. In definitiva, l’Autonomia è quasi sempre stata usata al fine della corruzione di massa a scopo di consenso e di potere da parte della borghesia di gestione, che ha nella politica e nell’apparato amministrativo i suoi referenti.
Il quasi sta per evidenziare l’entusiasmo della prima deputazione autonomista che credette davvero nella possibilità di gestire politiche di progresso sociale e di sviluppo economico e culturale, ma ben presto dovette rientrare nei ranghi e sottomettersi al disegno egemonico degli interessi centrali.
Vi sono stati nel tempo tentativi di approntare strumenti idonei allo sviluppo e alla crescita: per esempio la Sofis prima e poi l’Ente minerario siciliano, ma entrambi sono stati regolarmente svuotati del loro contenuto autonomista di strumenti destinati a creare progresso economico e sociale.
La Società finanziaria siciliana (Sofis), nata da una felice intuizione dell’ingegnere Domenico La Cavera allo scopo di incentivare la nascita di una imprenditoria indigena ha avuto il torto di ideare la Willis mediterranea, un’azienda che avrebbe dovuto costruire delle automobili fuoristrada. Questo progetto cozzava con gli interessi della Fiat e dovette essere immediatamente annullato. Esso segnò la fine della Sofis e la istituzione al suo posto dell’Espi, un ‘carrozzone’ ridotto a cimitero degli elefanti, dove venivano raccolti i residui fallimentari delle aziende decotte esistenti in Sicilia.
L’Ente minerario siciliano (Ems), nato per iniziativa dell’onorevole Salvatore Corallo, al tempo assessore dell’Industria, in quanto avrebbe dovuto valorizzare le risorse del sottosuolo dell’Isola, era un boccone troppo prelibato per lasciarlo alla gestione dei siciliani. E’ del 1963 la legge che istituiva l’Ems. Perché vedesse le prime luci della sua vita operativa trascorsero ben due anni durante i quali furono studiati gli strumenti per neutralizzarne la funzione e controllarne la gestione.
A questo fine furono creati gli accordi triangolari. Cioè, si misero a capo dell’Ente funzionari dell’Eni e della Montedison – la società che in Italia all’epoca dominava nella chimica – al fine di apportare in quell’organismo appena nato le ‘esperienze’ di chi in materia ne sapeva di più.
Gli interessi strategici americani vennero tutelati, facendo diventare l’Ems un covo di agenti della Cia e di boss della mafia siciliana che gestiranno l’Ente in piena armonia ed in perfetta sintonia. E’ appena il caso di ricordare le figure del senatore Graziano Verzotto e dell’avvocato Vito Guarrasi e del boss Peppe Di Cristina da Riesi. Il primo presidente del Consiglio di amministrazione ed il secondo presidente del Collegio dei sindaci dell’Ems, il terzo morto ammazzato all’interno delle faide mafiose.
C’erano da gestire e valorizzare risorse importanti quali i sali potassici, il salgemma o le sabbie silicee. Interi giacimenti di ricchezze che non vengono sfruttate perché nuocerebbero a interessi internazionali delle multinazionali che in quei mercati sono intoccabili.
L’unica ricchezza che si è salvata è il salgemma che è stata ceduta alla società Italkali – società per azioni controllata per il 51 per cento dalla Regione – dove i privati, capeggiati da un imprenditore agrigentino, l’avvocato Francesco Morgante (da qualche anno assistito da un ex dirigente regionale, il dottore Antonino Scimemi), hanno sempre svolto un ruolo centrale.
Questa segnalazione solo per esemplificare l’intreccio esistente tra la borghesia ‘autonomista’ e l’apparato amministrativo della Regione siciliana.
Come appare evidente da questa breve ricostruzione dell’Autonomia regionale siciliana, il popolo è totalmente tagliato fuori da qualsiasi possibilità di gestione delle sue prerogative. Di contro, i ‘papaveri’, quelli alti alti, fanno il bello ed il cattivo tempo.
E’ in corso una discussione sull’entità delle retribuzioni dei dipendenti della Regione, la punto che il presidente Rosario Crocetta ha deciso di tagliare le pensioni dei regionali in quiescenza.
Tuttavia, non è possibile conoscere la vera retribuzione del Segretario generale dell’Assemblea regionale siciliana, cioè dell’istituto autonomistico per eccellenza. Infatti, l’Autonomia speciale consiste nella facoltà di legiferare in via autonoma anche in concorrenza con la legislazione statale. E le leggi le fa l’Assemblea.
Si dice che il dottore Sebastiano Di Bella percepisca compensi per circa 600 milioni di euro l’anno lordi. Sul tema è aperta una discussione tra chi sostiene l’attendibilità di questa cifra e chi la nega. Ebbene, non sarebbe il caso di chiudere questa discussione con la pubblicazione del reddito annuo percepito dal segretario generale dell’Ars, soprattutto ora che sta andando in pensione a 61 anni? A chi giova questa segretezza? E’ questo il modo di salvaguardare la dignità e il decoro dell’istituto autonomistico al pari dell’obbligo di indossare la cravatta per entrare nel ‘tempio’ dell’Aautonomia? A che serve ed a chi questa Autonomia?
Non vogliamo farla lunga, e ce ne sarebbero di esempi ed aneddoti da ricordare per evidenziare la indifendibilità di questa Autonomia, che così com’è al popolo siciliano non serve proprio.
Una diversa Autonomia è, però, possibile. Ed è una Autonomia che abbia radicamento popolare. Quella sì che sarebbe difesa dal popolo siciliano con ogni energia e convinzione. Quella Autonomia sarebbe configurata da una Regione che avesse potere esclusivo di programmazione, indirizzo e vigilanza. La gestione dovrebbe essere trasferita al territorio, cioè ai Consorzi di Comuni o alle loro associazioni. L’articolazione delle competenze, nel senso della sussidiarietà, metterebbe basi democratiche più solide all’Autonomia e ne farebbe un vero strumento di progresso.
Questa soluzione statutaria porterebbe con sé delle conseguenze tutte positive. Ne segnaliamo due soltanto. La prima metterebbe al sicuro l’Autonomia dal trasformismo tradizionale delle classi dirigenti siciliane e dal loro ‘ascarismo’. La seconda, restituirebbe dignità al potere legislativo, sede della rappresentanza popolare, e annullerebbe la farsa della ‘governabilità’ con l’elezione diretta e blindata del presidente della Giunta regionale. A quel punto nessuno avrebbe l’interesse a governare, perché la gestione sarebbe sempre più vicina al territorio e, quindi, agli interessi popolari più diffusi e sempre meno clientelari.
Concludiamo con un appello rivolto a quegli intellettuali che si fanno paladini di questa Autonomia. Li invitiamo a rivolgere le energie del loro sapere ad una visione popolare più partecipata dell’Autonomia e a concentrare i loro sforzi in questa direzione, perché senza la forza delle spinte popolari non si va da nessuna parte.
Nota a margine
Il direttore non condivide alcune delle tesi che vengono illustrate in questo articolo. Ma il bello della democrazia – cosa che, ad esempio Matteo Renzi e Silvio Berlusconi non capirebbero mai – sta anche nel dare spazio e voce a chi non la pensa come noi.
Tuttavia in questa riflessione ci sono spunti interessanti che commenteremo nei prossimi giorni con un nostro intervento.
g.a.
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