L’arte per sfuggire ed entrare nel mondo: riflessione sul Teatro

Scrisse J. W. GOETHE: “Il mezzo migliore per sfuggire il mondo è l’ arte, il mezzo più sicuro per entrare in contatto con il mondo è l’arte”.

di Cettina Vivirito

 

Affermazione senza tempo, ma erano altri tempi; quel mondo artistico, musicale, teatrale che sortiva effetti dissacratori e modificava le sorti civili dell’umanità, è lontano. Se fin dai tempi dell’antica Grecia la rappresentazione ha avuto senso civico, utile a costruire e rappresentare un’identità collettiva, a portare alla luce e alla consapevolezza i conflitti che attraversavano la polis (anche a costo di creare scandalo), per il palcoscenico attuale cogliere l’emergenza di nuove identità, gusti, culture e modi di percepire il mondo è diventato estremamente più complicato. Eppure, la “Motivazione” del Premio Nobel per la letteratura a Dario Fo, conferitogli nel 1997, recita: ” (…) seguendo la tradizione dei giullari medioevali, (Fo) dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Inutile dire che siamo stati in molti a non avere potuto condividere tale motivazione, vista l’esiguità dell’impatto sulla realtà sociale dell’impegno del pur grande attore. (sopra a destra foto tratta da panoramio.com)

A causa dell’aumento della concorrenza nel mercato del tempo libero e con l’emergere di un unico mercato globale, i consumatori sono oggi letteralmente “schiaffeggiati” da offerte per riempire il loro leisure time. Non solo il numero delle organizzazioni culturali si è incrementato (per svariate ragioni e spesso senza alcuna competenza) in ogni settore artistico, ma gli sviluppi tecnologici legati ai nuovi media hanno stimolato ulteriormente l’offerta. Le imprese culturali, pur essendo spesso caratterizzate da inefficienze economiche (si pensi alla situazione fortemente deficitaria dell’opera), dovrebbero auspicare a una riconciliazione con il principio di realtà onde rendere possibile quello basilare per il quale la cultura deve essere alla portata di tutti.

Il Teatro è forse l’espressione artistica che negli ultimi anni ha subito la più forte penalizzazione tanto da parlare di crisi del sistema teatrale italiano, aggravata sia dalla riduzione del Fondo Unico dello Spettacolo che dal minore sostegno che possono garantire gli Enti Locali; questione che ha posto in luce la scarsa capacità di coinvolgere nuove e più esigenti fasce di spettatori. Ciò si riflette

Foto di Carmine Maringola tratta da www.teatrostabilenapoli.it

non solo sugli incassi ma anche sulla possibilità che altri soggetti economici (dalle Imprese alle Fondazioni) siano indotti a guardare al teatro come ad un’opportunità di marketing, nonostante l’incremento di attenzione che il mondo dell’intrattenimento riscuota da parte di economisti e sociologi, attenti a studiare i cambiamenti negli stili di vita delle società post-industriali di questo inizio di millennio.

Le grandi compagnie e i teatri hanno cercato di minimizzare il rischio, ovvero hanno spinto le loro produzioni e programmazioni verso spettacoli più sicuri, garantiti dai soliti nomi in cartellone, che non irritassero né sorprendessero troppo.

Ancora oggi però l’applicazione delle tecniche gestionali all’interno del sistema culturale crea, soprattutto negli studiosi e negli artisti, la paura di perdita di valori della cultura stessa; tra economia e mondo dell’arte e della cultura esiste una sorta d’incapacità nella comunicazione, una specie d’equivoco che rende difficile la comprensione fra il mondo degli artisti e la cultura manageriale che talvolta si traduce in contrasti fra la direzione artistica e quell’amministrativa. La prima è tesa alla creatività, all’innovazione, all’espressione del potenziale artistico e percepisce la parte amministrativa come un freno al libero sviluppo delle idee; ne deriva la tendenza a imporre scelte artistiche che richiedono risorse economiche superiori alla disponibilità e rischiano di compromettere l’equilibrio economico finanziario quando non l’immagine stessa dell’azienda.

La parte amministrativa non è sempre in grado di cogliere il valore del progetto culturale e di comunicare l’importanza dell’economicità come condizione di funzionamento e di sopravvivenza dell’azienda. Tale diffidenza è legata a varie ragioni, non per ultime quelle degli artisti e dei responsabili del settore che temono la perdita di posizioni, che manifestano la paura di una mercificazione dell’arte e della cultura.

Nello specifico dello “spettacolo”, quello live è rimasto a guardarsi allo specchio senza capire che la domanda di conoscenza ha travalicato di gran lunga il semplice appagamento rituale che spingeva a teatro la generazione dei nostri nonni. L’offerta va concepita e organizzata in modo innovativo per la necessità di consentire al consumatore un’efficace raccolta di informazioni simboliche, critiche ed estetiche attraverso la produzione di un bene complesso nell’ambito del quale il consumo diretto dello spettacolo dal vivo sia il punto focale ma non più l’esclusivo momento.

Il fulcro di un effettivo passo avanti rimane legato alla possibilità di adeguare la natura stessa del prodotto spettacolo alle aspettative complesse e sofisticate di un pubblico potenziale; bisognerebbe, in poche parole, “formare il pubblico”: “Io stessa sono il pubblico perché nel momento in cui penso al pubblico devo pensare a una persona precisa, perché ognuno di noi è pubblico ed è diverso da qualcun altro che ugualmente è pubblico. Io e i miei danzatori siamo obbligati a trovare qualcosa in comune e a superare lo scoglio del pubblico”. (Pina Bausch).

Un altro stereotipo duro a morire è il pensare alle imprese culturali come non-profit cioè senza obiettivo di profitto. In realtà, in Italia l’impresa culturale non è inevitabilmente non-profit, anche se le recenti innovazioni normative fanno sì che questa “forma” aziendale stia diventando scelta elettiva per beneficiare di una serie di vantaggi fiscali e di sovvenzioni.

Infine è diffusa la convinzione che essendo l’arte, e in special modo il teatro, un bene esistente da sempre che deve essere tutelato e preservato, mai tramonterà perché vi sarà sempre qualche mecenate disposto a sostenerlo. Tale certezza ha del vero poichè la stessa Costituzione italiana, art. 9, recita così: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

Innegabilmente, oggi, i teatri sono meno frequentati, alla stregua di librerie e biblioteche. Eppure, nessun vascello è più veloce di un libro per portarci in terre lontane come scrisse la Dickinson e nessuna interattività virtuale può emozionarci fino alle lacrime come la voce vibrante di un uomo sul palco, dentro la vischiosità assoluta del buio in sala. Significativo a questo proposito il commento di Berlioz nelle sue Memorie:

“(…) Shakespeare, piombandomi addosso all’improvviso, mi fulminò. Il suo bagliore, spalancandomi con un fragore sublime il cielo dell’arte, me ne illuminò le profondità più nascoste. Riconobbi la grandezza vera, la vera bellezza, la vera realtà drammatica. (…) Io vidi… Io compresi… Io sentii ch’ero vivo e che dovevo levarmi e marciare.”

Condensando in modo forse imperdonabile l’estetica di Nietzsche e asservendola al tema dell’emozione a teatro, si potrebbe affermare che l’approccio all’arte e alle problematiche stesse dell’esistenza è fortemente impregnato di irrazionalità. È l’elogio della potenza creatrice del caos che devasta, sconvolge e finalmente libera. L’ordine si può concepire razionalmente, lo si può pensare, ma i precipizi incommensurabili dell’irrazionale non sono esplorabili con la ragione, si possono solo percepire e sfidare. Lo stesso Nietzsche riconosce che nella tragedia Dioniso parla il linguaggio di Apollo, ma Apollo finisce con il parlare il linguaggio di Dioniso: caos, irrazionalità, emozione irriflessa hanno la meglio sull’ordinata armonia del cosmos.

Lo spettacolo, dunque, diversamente dalle altre forme artistiche può non divertire, può infastidire il pubblico con critiche più o meno velate, può impaurirlo, può agire sulla sua coscienza e condannarne misfatti riprodotti nella finzione scenica. Il teatro denuncia, emoziona, turba, ma non è più in grado di offrire conforto da quando la letteratura drammatica si è aperta a nuovi soggetti: famiglia e lavoro sono elevati a valori supremi, salotti e interni eleganti ma mai lussuosi fanno da sfondo a rivelazioni, pianti ovattati e riconciliazioni, self-made men orgogliosi del proprio cinismo fronteggiano sulla scena mogli insoddisfatte, talora infedeli, degne eredi della flaubertiana Madame Bovary. L’emozione suggerita allo spettatore è forte ma contenuta, irresistibile ma trattenuta dall’ossequio alla norma sociale, quasi un sussurro che scuote gli animi ma solo di rado trapela dalle parole.

La radicalizzazione della fiducia in un teatro che rifletta esattamente il reale porterà, negli ultimi decenni del XIX secolo, alla poetica naturalista, secondo cui anche l’emozione è analizzabile scientificamente. Non costituisce eccezione nemmeno l’interiorità dell’uomo, i suoi sentimenti e le sue emozioni: tutto è, insomma, esaminabile con l’attendibilità propria della scienza. In questo caso, il piacere della fruizione – se di piacere è ancora possibile parlare – consiste nell’assistere, da parte dello spettatore, a una spietata “vivisezione” di sé.

Merita un cenno anche la musica a teatro, che si afferma quale affascinante “linguaggio dell’anima”. La sua universalità, la sostanziale irrazionalità che è a essa implicita, la sua immediatezza rendono la musica accessibile a chiunque proprio in virtù della sua natura emozionale. L’opera lirica, per esempio, emoziona e commuove anche gli spettatori che non ne colgono interamente le parole, proprio perché la musica si rivolge direttamente al cuore e non necessita di alcuna mediazione da parte della ragione. La musica fa da supporto alla parola, la completa, la arricchisce, la sottolinea o, addirittura, arriva a contraddirla, rivendica la sua autonomia dal testo scritto ma trova nel testo stesso il proprio necessario compimento. Melodie irrisolte, armonie che non disdegnano la dissonanza, accordi che prevaricano qualsivoglia disposizione accademica: questa musica è quella che a teatro emoziona con la sua incompiutezza e promette una spiegazione che non sarà mai abbastanza chiara da poter essere decifrata. È l’emozione dell’inatteso, di un segreto sussurrato e solo intuito, di una percezione istantanea, sfuggente come le note di un arpeggio. Il canto misterioso di Debussy lascerà spazio, nella seconda parte del Novecento, a quello che potremmo definire il corrispettivo musicale delle Avanguardie: la dissonanza, la dodecafonia, la legittimazione del rumore che daranno luogo a nuove, stridenti emozioni.

A partire dai primi decenni del XX secolo, con le Avanguardie storiche, e passando poi alle molteplici declinazioni del teatro di ricerca, è rilevante sottolineare come il teatro si proponga di colpire lo spettatore, di “percuoterlo”, perfino, suscitando in lui emozioni esasperate, intense fino ai limiti della sopportazione, spesso sgradevoli – basti pensare, a titolo di esempio, al teatro futurista, al teatro della crudeltà, al teatro della morte. L’emozione si fa provocazione, l’aura di sicurezza, di estraneità che ha sempre avvolto la platea ora si infrange e il suo coinvolgimento, nel bene o nel male, è totale. Il teatro accetta di liberare energie sconosciute, talora pericolose, quasi sempre difficilmente controllabili, che si diffondono dal palcoscenico al pubblico in sala.

Se esiste un fil rouge che collega fra loro le varie avanguardie storiche e le infinite forme del nuovo, questo è da ravvisare proprio nel tentativo di coinvolgere lo spettatore, di scuoterlo, di minarne le certezze. Le modalità possono essere le più diverse, ma il fine ultimo rimane lo stesso: emozionare, far battere ancora cuori che, ormai, quasi nulla riesce più a impressionare.

Colgo l’occasione per ricordare qui il grande Vincenzo Cerami, da poco scomparso, il quale affermava che si parte sempre da un vuoto, da uno spazio vuoto, quindi tragico, che bisogna riempire di vita. La riproduzione artificiosa della vita, sulla pagina scritta o sul palcoscenico, è un atto altrettanto tragico, perché ricostruisce e mima, con le leggi del linguaggio e delle convenzioni linguistiche, una realtà presunta. L’artista si convince di raccontare qualcosa che è veramente accaduto o sta accadendo in quel momento nella realtà, anche se in fondo sa di costruire un feticcio, di cui l’uomo ha comunque bisogno. Il suo ultimo appello era stato proprio per la cultura: “(…) la nostra speranza è che lo Stato e le imprese decidano insieme di investire sulle bellezze d’Italia e prendano coscienza che la cultura, il talento, la fantasia sono una risorsa reale”, aveva scritto in una accorata lettera che la figlia Aisha ha letto al Quirinale alla presenza del Presidente della Repubblica, in occasione della presentazione dei candidati ai David di Donatello 2013. Roberto Benigni confessò di lui: “che regalo averlo conosciuto! Il titolo del “nostro” film “La vita è bella”, è stato lui a suggerirlo e io l’accolsi perchè sembra una frase consumata e invece vuol dire proprio quel che dice: la nostra vita è bella. Anche nei grandi momenti di sconforto quella frasettina spezza il costato, avviluppa il cuore, fa sentir più dolce tutto il mondo. E’ anche un bel verso, ora perché l’abbiamo già sentito mille volte, ma il primo uomo che ha detto a una donna: «I tuoi occhi sono come le stelle» è il più grande poeta del mondo, così come chi ha detto la prima volta «la vita è bella». L’ha trovata Vincenzo Cerami, uno dei più grandi sceneggiatori del mondo, quando ci vuole ci vuole!”.

 

 

 

Redazione

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