L’archeologo etneo che studia i sepolcri in Azerbaijan «Scavi sul più antico rito funebre con l’uso del fuoco»

«Indagare sulla diffusione della tradizione di seppellire i morti all’interno dei grandi tumuli funerari circolari a camere coperta (kurgan) nel Caucaso meridionale durante il periodo che va dal IV al I millennio a.C». È questo che ha portato l’archeologo catanese Nicola Laneri in Azerbaijan occidentale. Docente di Archeologia e Storia dell’arte del vicino Oriente all’Università di Catania e direttore della School of religious studies al Camnes di Firenze, Laneri adesso è il direttore scientifico del progetto Ganja region jurgan archaeological project (Garkap). 

Nato nell’estate del 2017, il progetto è adesso nel vivo della sua seconda edizione. «È una missione congiunta tra l’Università di Catania, l’Accademia nazionale delle scienze di Azerbaijan e l’istituto di Archeologia ed Etnografia di Baku (la capitale dell’Azerbaijan, ndr) che – spiega a MeridioNews Laneri – si concentra su scavi archeologici per analizzare i kurgan». Tumuli funerari tipici della regione del Caucaso datati all’età del Bronzo antico (cioè il periodo Kura-Araxes, circa 3500-2500 a.C.) e all’età del Ferro. 

In particolare, le sepolture dell’età del Ferro sono strutture piccole che presentano deposizioni di singoli individui – o al massimo di due persone – dentro le quali però sono stati ritrovati anche oggetti e, in alcuni casi, animali. Dallo studio dei sepolcri del periodo Kura-Araxes emerge, invece, l’uso funerario di seppellire diversi individui dentro una stessa grande camera che, alla fine delle pratiche rituali di sepoltura, veniva bruciata. «Nello specifico, all’interno del progetto, abbiamo iniziato a indagare un grande tumulo di oltre 20 metri di diametro, databile alla fine del quarto millennio a.C, che stando a quanto risulta – spiega Laneri – avrebbe contenuto circa venti o trenta individui in una camera di sette metri per cinque preceduta anche da un corridoio». 

È qui che i ricercatori hanno trovato i resti carbonizzati di una «famiglia nomade allargata. Si tratta di quattro generazioni – precisa l’archeologo – che hanno vissuto in un arco temporale complessivo che si aggira tra i 200 e i 250 anni». L’obiettivo del progetto è quello di mappare le centinaia di kurgan della zona, restaurare e conservare gli oggetti che appartengono ai corredi funerari e che vengono ritrovati all’interno delle tombe, studiare i resti umani, animali e botanici. «L’ultima fase del progetto – continua Laneri – sarà quella di creare un parco archeologico kurgan che possa anche contribuire a dare uno slancio al turismo nella regione». 

Le abitudine funerarie raccontano sempre molto dei diversi popoli. «In questo caso – analizza l’archeologo – ci troviamo di fronte a comunità nomade che vivevano sei mesi nelle montagne tra Azerbaijan, Armenia e Georgia e la restante parte dell’anno nelle stelle che portano verso la capitale. Sono stati loro a dare vita al più antico rituale funebre in cui è stato utilizzato il fuoco che, oltre ad avere un’ancestrale valenza purificatrice – conclude – serviva anche per segnalare la propria presenza in zona ad altri gruppi nomadi». 

Marta Silvestre

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