L’Antimafia indaga sull’antimafia di professione Decine di audizioni per separare la retorica dai fatti

Audizione dopo audizione, tra informazioni secretate e atti pubblici, la Commissione nazionale antimafia da oltre un anno lavora a un’inchiesta sul sistema che si è creato attorno e oltre il vessillo della lotta alla criminalità organizzata. Come ha sottolineato la presidente dell’organismo bicamerale di San Macuto, Rosy Bindi, al termine dell’audizione del primo inquilino dell’Ars, Giovanni Ardizzone, «noi dobbiamo combattere la mafia, ma dobbiamo anche essere molto avvertiti nell’uso della lotta alla mafia per altri fini e per altri obiettivi». Un’indagine, insomma, sul movimento civile dell’antimafia, per approfondirne i tratti caratteristici, individuarne i limiti e le contraddizioni, ma soprattutto per rilanciarne il significato e l’attività.

Lo studio verosimilmente porterà a una proposta di legge d’iniziativa della commissione per normare e definire l’universo dell’antimafia. Documento a cui finora in realtà la commissione ha lavorato soltanto «sui presupposti generali» come raccontato dal vicepresidente Claudio Fava. «Soprattutto – ha aggiunto – quando si parla di un sistema di fondi pubblici e finanziamenti: non può più bastare chiamare un’associazione Viva Falcone per avere una medaglietta antimafia. Servono griglie di efficienza, risultati, una gestione dei beni confiscati che favorisca il riscatto dei territori».

Il caso Saguto, il caso Montante, la gestione dei beni confiscati, non ultima la denuncia di Giovanni Ardizzone, che sul caso della ricapitalizzazione di Riscossione Sicilia ha chiesto di essere ascoltato in commissione Antimafia. Sente la necessità di mettere le mani avanti, scongiurare il rischio per cui, se l’assemblea regionale non dovesse approvare un nuovo finanziamento della società, possa passare il messaggio di voler «dare seguito a quel patto criminale che parte da lontano e che arriva fino ai tempi nostri, dove tutti sono indagati, dove tutto è brutto e il bello sta da un’altra parte». Su questo e molto altro si interroga e indaga la commissione.

Già nel 2014, in sede di audizione a San Macuto, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, Giuseppe Caruso, denunciava un sistema compromesso nell’amministrazione giudiziaria di beni che avrebbero meritato di essere posti in liquidazione, ma venivano mantenuti in vita perché «non provvedere alla liquidazione significa poter continuare a lucrare nella gestione». «Praticamente – lo interrompeva il deputato Andrea Vecchio – a una mafia se ne è sostituita un’altra». Secondo Caruso, molto semplicemente, lo Stato avrebbe deciso «di non fare impresa».

Ma è il 2016, l’anno in cui la commissione indaga in maniera puntuale sull’antimafia. È dello scorso 13 dicembre l’audizione secretata di Marco Venturi, ex assessore regionale alle Attività produttive, già presidente di Confindustria Centro Sicilia, mentre risale al 25 ottobre l’audizione, anche in questo caso coperta da segreto, di Nicolò Marino, ex assessore regionale all’Energia. Un’audizione, come spiegato da Bindi, «dedicata a un’illustrazione dell’attività svolta dal dottor Marino durante il mandato di assessore regionale, all’interno degli approfondimenti che la commissione sta dedicando alla situazione in Sicilia, in relazione all’inchiesta sulla natura e sulle trasformazioni del movimento civile dell’antimafia».

Due, le audizioni del governatore Rosario Crocetta, la prima il 2 agosto 2016, la seconda il 4 ottobre, in cui si sono toccati diversi argomenti, dai rapporti del governo regionale con Confindustria Sicilia, alle dimissioni di Marino, fino alle intimidazioni al presidente del parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci.

Ancora, era il 12 luglio quando ad essere convocata è invece Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, già assessora regionale alla Salute, per approfondire il tema delle infiltrazioni mafiose nel settore della sanità siciliana, ma anche perché le sue dimissioni a seguito del caso Tutino sono apparse «emblematiche – sono le parole di Bindi – rispetto al lavoro che la commissione ha avviato sulle distorsioni e sulle degenerazioni dell’antimafia».

Fino, andando a ritroso, al 2 febbraio, quando ad essere ascoltato è il giornalista Attilio Bolzoni, secondo cui «è necessario distinguere con molta responsabilità la mafia che si traveste da antimafia, dagli smarrimenti e dalle inadeguatezze del movimento antimafia storico». Bolzoni ha raccontato dei processi dei primi anni 2000, dei mafiosi poi condannati che in aula gridavano «La mafia fa schifo», mentre venivano condannati per associazione mafiosa. «Erano i tempi in cui gli uomini d’onore di Cosa nostra esibivano pubblicamente la loro antimafiosità. Provavano già allora a infiltrarsi nelle associazioni antiracket, organizzavano convegni e a volte erano i primi a sponsorizzare manifestazioni contro la mafia».

«Non vi nascondo – ha aggiunto Bolzoni – che da quando ho cominciato a occuparmi di quest’antimafia, ho avuto una vita complicata come non l’avevo da una trentina d’anni, quando mi occupavo di mafia a Palermo durante la stagione dei cadaveri eccellenti, nei primi anni Ottanta. La retorica dell’antimafia non serve più. La retorica – è la conclusione del giornalista – distorce i fatti e li sotterra».

Miriam Di Peri

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