L’amaro succo della riconversione di Termini Imerese Il racconto di due figli di operai dell’ex stabilimento

«Una storia fatta di rapacità economica, miopia politica e infine di dirottamento di capitali produttivi. Una storia che, purtroppo, sembra ripetersi drammaticamente in questi giorni». Tommaso India è un antropologo palermitano ed è figlio di un ex operaio dello stabilimento Fiat di Termini Imerese. Sulle vicende del polo automobilistico, chiuso nel 2011 dall’allora amministratore delegato Sergio Marchionne, ha scritto pure un libro – Antropologia della deindustrializzazione, il caso della Fiat di Termini Imerese. Conosce dunque sia dall’interno che come studioso le vicende termitane, nuovamente sotto le luci nazionali dei riflettori dopo il recente arresto dei vertici di Blutec, accusati di aver dirottato 16 milioni di euro concessi da Invitalia per il rilancio del sito industriale e usati, secondo l’accusa, per scopi privati. 

Una riconversione che è una sorta di terra promessa – a Termini come a Gela – e che nel Palermitano va avanti ormai da più di sette anni. Viene dunque da chiedersi quali sono, se ci sono, le responsabilità di FCA. «È davvero difficile rispondere a questa domanda senza documenti certi – dice l’antropologo – Ciò che è possibile dire su questa vicenda è che la Blutec è un marchio, nato nel 2014, che fa capo alla Metec, un’azienda leader nella progettazione di prototipi e di soluzioni tecniche per gli autoveicoli, con cui in passato la Fiat ha collaborato. La Blutec è nata con la specifica missione di progettare autoveicoli eco-sostenibili, auto e bici elettriche e le varie componentistiche. Una cosa che pochi sanno è che il terreno e i capannoni su cui sorge lo stabilimento di assemblaggio siciliano oggi sede della Blutec è ancora della Fca. Come si può immaginare, Fca non ha mai avuto l’interesse a che un potenziale concorrente automobilistico rilevasse la sua attività in Sicilia, ha quindi concesso la possibilità di una riconversione soltanto ad un’azienda che: non poteva rappresentare una minaccia per i suoi interesse; poteva in qualche modo controllare, dal momento che Fca è un potenziale grande cliente a cui vendere i prodotti Blutec e Metec. Questo è quanto posso affermare alla luce dei dati che sono in mio possesso».

Nel suo lavoro, pubblicato nel 2017, India ha intervistato tanti ex lavoratori: i più fortunati di loro sono riusciti ad andare in pensione, gli altri annaspano tra gli ammortizzatori sociali e promesse che non si concretizzano mai. Quegli operai che, come cantava Giorgio Gaber, «hanno il complesso della borghesia» e allo stesso tempo «sono solo più oppressi e più sfruttati di noi», ma che hanno garantito col proprio duro lavoro l’emancipazione culturale ai propri figli. È quello che è avvenuto anche a Paolo (il nome è di fantasia ..ndr), che dopo la laurea in Lettere è emigrato nel Nord Italia. E però mantiene sempre il legame con la propria terra di origine. «Mio padre ha lavorato in fabbrica fino a un anno prima che l’ex SicilFiat iniziasse tutti quei problemi che conosciamo – racconta – Ora ha un tumore al midollo osseo che gli crea problemi con le piastrine. Io poi ho rischiato di vivere la cosa molto più da vicino; tra le proposte che mio padre ha ricevuto andando in pensione (o poco prima), c’era quella di subentrargli. Io ho per fortuna rifiutato, un po’ perché sono agli antipodi, un po’ perché detestavo il lavoro che faceva mio padre, un lavoro che lo rendeva una larva. La riconversione è un po’ la solita manovra che si fa nei territori economicamente depressi: dare speranze e contentini ma lasciare in realtà disperazione e nessuna possibilità di creare un’alternativa. Non era vita quella. Lui, e in generale gli operai la vedevano come proposta anche appetibile, ma bastava guardarli quando tornavano da lavoro per capire cosa fosse quel lavoro. Se sei stanco, non hai tanta pazienza e poi la stanchezza diventa la tua pelle. Mio padre era sempre aggressivo e irritato».

A livello personale, dunque, l’addio di Fiat è stato vissuto dagli operai come un abbandono. Fca è una multinazionale lontana, e le continue invocazioni dei sindacati e delle istituzioni affinché si sieda al tavolo delle trattative al Ministero dello Sviluppo Economico sono finora cadute nel vuoto. Ma quali sono le conseguenze e l’eredità che l’ex azienda automobilista torinese lascia a Termini, sul piano sociale e ambientale, oltre che economico e politico? Si è sviluppato un indotto? E senza le commesse Fiat come si può andare avanti? «In termini sociali la chiusura della Fiat ha rappresentato un evento che ancora oggi, a distanza di sette anni, l’intera comunità non è riuscita a rielaborare – spiega l’antropologo – Durante le interviste, molti dei miei interlocutori non riuscivano a immaginare un futuro oltre l’esperienza della Fiat. Molti di loro sapevano già che non avrebbero potuto trovare un altro lavoro molto facilmente data la loro età (lo stabilimento aveva un’età media molto elevata che si aggirava intorno ai 52 anni). Fra i più giovani molti sono andati via, a lavorare in altre parti di Italia; altri ancora sono come sospesi: hanno percepito per alcuni anni la cassa integrazione, poi sono stati assunti dalla Bluetec (dei 1516 operai che erano in forza alla Fiat al momento della chiusura nel 2011, soltanto 130 circa sono passati alla nuova azienda), ma hanno lavorato veramente poco, dal momento che le commesse erano scarse». 

Secondo lo studioso, inoltre, dal punto di vista ambientale, il discorso è ancora più complesso. «Sebbene il litoraneo termitano rappresentasse una delle parti naturalistiche più belle e accessibili ai turisti, dagli anni Cinquanta in poi il territorio ha preferito seguire il sogno della industrializzazione siciliana – afferma lo studioso – Questo ha portato all’installazione di numerose fabbriche e capannoni industriali, alla costruzione di un interporto e, oltre alla presenza della Fiat, anche all’istallazione di una centrale Enel ancora oggi in attività. Tutto questo non ha fatto altro che degradare il territorio, da un punto di vista ambientale, inquinandolo quasi irrimediabilmente. Un indotto, infine, non si è mai pienamente sviluppato dal momento che nello stabilimento siciliano venivano soltanto assemblati i particolari delle automobili. Tali particolari venivano prodotti altrove. Questo ha precluso la creazione e lo sviluppo di un indotto esteso, funzionante ed efficace. Le poche aziende presenti nel territorio come indotto Fiat, vedi per esempio la Lear che produceva i sedili e gli interni per le automobili o la Bienne Sud che si occupava della verniciatura dei paraurti, sono state cancellate dal territorio nel momento in cui la Fiat ha chiuso i battenti». 

Eppure la storia dell’azienda che veniva dal Nord, l’unico colosso automobilistico italiano, non è sempre stata così drammatica. «Lo stabilimento automobilistico siciliano fu inaugurato nel 1970 e rappresentò per la Fiat il primo esperimento produttivo al di fuori dell’hinterland torinese – dice ancora India – una sorta di delocalizzazione ante-litteram: quando al Nord si scioperava a Termini Imerese si lavorava su tre turni. Dall’altro lato vi era il piano per un’industrializzazione del Sud, portato avanti dai governi nazionali e regionali, necessario in un Paese in cui il divario economico fra Settentrione e Meridione era sempre più evidente e drammatico. Quelli sono gli anni delle grandi emigrazioni di intere famiglie alla ricerca di un futuro migliore. La storia dello stabilimento si sviluppa nel territorio per un periodo di circa quarant’anni (1970-2011). Un periodo di permanenza sul territorio così lungo, come è facilmente intuibile, ha portato ad una trasformazione del rapporto fra azienda e manodopera locale. Il rapporto dell’azienda con la manodopera è cambiato nel corso degli anni e quella identità operaia che l’opinione pubblica si immagina monolitica è in realtà estremamente complessa e cangiante in base al contesto politico, storico, sociale e culturale in cui i vari operai sono nati e si sono formati».

Cosa resta dunque? Almeno tre generazioni di operai specializzati, che dopo aver acquisito competenze con fatica, sudore e malattie non possono neanche più esprimerle. In un territorio dove la riconversione resta un miraggio nel deserto industriale della Sicilia, in un sogno di progresso durato appena 40 anni. «La chiusura dello stabilimento ha provocato senz’altro sgomento, rabbia, disperazione – conclude l’antropologo – Ma la strategia di delocalizzazione della Fiat, messa in atto almeno a partire dalla grande crisi dello stabilimento siciliano nel 2004, aveva cominciato lentamente a fare abituare gli operai a non lavorare, in conseguenza del ricorso continuo alla cassa integrazione. La chiusura, come mi disse a suo tempo uno degli operai che ho frequentato durante la mia ricerca, non è avvenuta all’improvviso, ma è come se avessero smembrato il corpo di un malato lentamente. Prima un dito, poi un altro, poi un braccio e così via».

Andrea Turco

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