C’è una data: 12 marzo 1992. E’ il giorno in cui a Palermo, nei viali di Mondello, viene ammazzato Salvo Lima, capo indiscusso degli andreottiani di Sicilia. Dal 1979 Lima ha lasciato il Parlamento nazionale e si è trasferito a Strasburgo. Europarlamentare. Un posto che nella politica italiana di quegli anni viene considerato come una sorta di ‘cimitero degli elefanti’. Un luogo per politici ormai in disarmo.
Non è così per Salvo Lima (foto sopra insieme con Andreotti, tratta da orsattipietro.wordpress.com), che qualche mese prima di essere ammazzato ha chiesto e ottenuto il disarcionamento di Calogero Mannino dalla segreteria regionale della Dc siciliana. A differenza di altri esponenti politici che vivono la permanenza al Parlamento europeo come un pensionamento, Lima è ancora fortissimo. E lo è perché, dopo la morte di Antonino Gullotti, altro ‘capo’ storico della Dc siciliana, ha giocato con grande abilità a dividere il correntone siciliano della sinistra democristiana. Dividendo i suoi avversari, lui comanda.
Nel momento in cui muore, Lima non pensa nemmeno lontanamente di essere nel mirino di qualcuno. Tanto meno dei mafiosi. Se avesse avuto sentore, anche vago, che qualcosa di ‘siciliano’ non filava per il verso giusto non si sarebbe esposto. La mattina del 12 marzo del 1992 Lima è tranquillo. Con i suoi amici sta organizzando un incontro elettorale in vista dele elezioni politiche previste per il mese successivo.
Per i magistrati che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia tutto comincerebbe con l’omicidio Lima. E da lì che inizierebbe la nuova trattativa. Un nuovo patto di convivenza tra Cosa nostra e la politica.
I magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, che hanno formulato la richiesta di rinvio a giudizio per un bel numero di politici, danno per scontato che il garante del vecchio patto era Giulio Andreotti. Che a un certo punto non sarebbe stato più affidabile. Da qui la decisione della mafia corleonese di eliminare Lima. Da qui, come già accennato, sarebbe partita la trattativa.
Gli inquirenti ipotizzano il reato di “minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato”. Il governo dell’epoca sarebbe stato ricattato dai mafiosi per ottenere “benefici di varia natura”. Per esempio, la modifica di alcune leggi, la revisione del maxi-processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e un migliore trattamento per i detenuti.
Secondo i magistrati, Calogero Mannino, uno dei successivi, possibili bersagli dei mafiosi, si sarebbe attivato per salvarsi la vita. In quel momento si cercano gli interlocutori per avviare “la trattativa e sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra”. Obiettivo: scongiurare altri attentati.
Poi, però, arriva la strage di Capaci. Muoiono dilaniati dalle bombe Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta.
A questo punto, “su incarico di esponenti politici e di governo”, i carabinieri del Ros, Reparto operativo speciale, (Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno) contattano Vito Ciancimino, (a sinistra con i figlio Massimo) esponente di spicco della mafia corleonese, “agevolando così l’instaurazione di un canale di comunicazione con i capi di Cosa nostra, finalizzati a sollecitare eventuali richieste”.
Intanto a Roma le cose cambiano. Vincenzo Scotti lascia il ministero dell’Interno al suo compagno di partito, Nicola Mancino (sono entrambi democristiani).
Arriviamo al 19 luglio del 1992, giorno della strage di via D’Amelio. Ammazzano Paolo Borsellino e la sua scorta. Borsellino sarebbe stato informato dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino. Non sarebbe stato avvertito dagli stessi carabinieri. Per i magistrati inquirenti, Borsellino era diventato di ostacolo alla trattativa con i mafiosi.
Per gli inquirenti, a conti fatti, lo Stato è vittima di un’estorsione. Messi di fronte al ricatto di altre possibili stragi, i governanti dell’epoca negoziano con gli estorsori. Gli esponenti del governo di quegli anni – un governo sotto ricatto – restano le potenziali vittime. Chi invece agisce in posizione intermedia viene ritenuto corresponsabile insieme ai mafiosi.
Questo, sempre secondo la tesi dei pubblici ministeri, spiegherebbe perché finiscono sotto accusa Mannino, i carabinieri e Marcello Dell’Utri: quest’ultimo, dopo l’omicidio Lima “si propose come interlocutore di Cosa nostra”. In seguito, quando Silvio Berlusconi, uomo da sempre a lui molto vicino, diventa capo del Governo, nel 1994, “agevolò materialmente la ricezione della minaccia”.
Il 1994 è l’anno in cui sarebbe stato raggiunto un nuovo equilibrio politico. Prima, però, ci sono le bombe del 1993 a Firenze, Milano e Roma. E ci sono, soprattutto, le pressioni per alleggerire, se non per sbaraccare, il “41 bis”. L’alleggerimento del 41 bis, cioè del carcere duro, si configurerebbe come il “segnale di distensione”. A lanciarlo è il ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, che ha preso il posto di Claudio Martelli. E’ Conso che non rinnova il carcere duro a oltre trecento detenuti.
Per la Procura, Conso non avrebbe detto la verità sui motivi che lo portano ad assumere una decisione piuttosto grave. Così è finito sotto inchiesta per false informazioni al pm, insieme all’ex direttore generale delle carceri Adalberto Capriotti. Sarebbero le vittime del racket che negano il ricatto. L’indagine che li riguarda è stata stralciata e sospesa in attesa dell’esito del processo principale.
Viene invece rinviato a giudizio un altro ex ministro, il già citato Nicola Mancino. E’ accusato di non aver detto la verità. Mancino ha deposto al processo contro il generale Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Per lui si ipotizza una presunta falsa testimonianza. Per gli inquirenti, non avrebbe raccontato la verità sui motivi dell’avvicendamento al ministero degli Interni. Mancino, sempre secondo i pm, avrebbe mentito sulle informazioni ricevute da Martelli in riferimento ai contatti tra i carabinieri e Vito Ciancimino, contatti avvenuti tramite il figlio dell’ex sindaco di Palermo Massimo. Quest’ultimo, a propria volta, risulta imputato per avere svolto il ruolo ‘postino’ tra suo padre e Bernardo Provenzano. Il reato ipotizzato è quello di concorso in associazione mafiosa.
Questo, per grandi linee, lo scenario ‘disegnato’ dalla Procura della Repubblica di Palermo.
La parola, adesso, passa a un giudice, che dovrà stabilire se ci sono gli elementi per celebrare un processo.
Precisazione
Un lettore – giustamente – ci ha fatto notare che Salvo Lima viene eletto per la prima volta eurodeputato nel 1979, proprio l’anno in cui inizia a ‘vivere’ il Parlamento europeo. Abbiamo subito passato la correzione. Si è trattato, purtroppo, di un refuso. Ringraziamo il lettore per la segnalazione.
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