La Torre e Dalla Chiesa, vite incrociate nel segno dell’antimafia «Avevano capito il sistema di potere oltre gli stereotipi mafiosi»

Sono trascorsi 36 anni dall’omicidio del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di polizia Domenico Russo. Sul luogo dell’attentato oggi sono state deposte delle corone di alloro. La sua vita si è spesso incrociata con quella di Pio La Torre, dirigente del partito comunista siciliano, autore della proposta di legge che introdusse il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso nel codice penale italiano, approvata dopo che entrambi furono uccisi. Due storie che si sono intrecciate, due persone che si assomigliavano sotto certi aspetti, come ricorda anche il figlio di La Torre, Franco: «Entrambi amavano studiare la materia di cui si occupavano. Durante la sua permanenza a Palermo come comandante della legione carabinieri Sicilia, Dalla Chiesa collaborò con la Commissione antimafia e in quella circostanza, nel corso di un’udienza, presentò una ricostruzione in termini genealogici delle famiglie mafiose. Alla fine degli anni Sessanta il generale Dalla Chiesa aveva già in mente che la mafia era un sistema organizzato, formato da gruppi che erano legati da vincoli familiari». Questo, ripercorre Franco La Torre, avviene parecchi anni prima che Tommaso Buscetta racconti a Giovanni Falcone la struttura piramidale di Cosa nostra. L’approccio quindi è lo stesso, ovvero adottare un metodo scientifico: acquisire delle informazioni, analizzarle e arrivare a un risultato. 

«Quando siamo di fronte a fenomeni complessi come la mafia – afferma La Torre – l’analisi dei dati è molto importante per arrivare a delle conclusioni. Mio padre alla fine degli anni Settanta presentò la sua proposta di legge contro le organizzazioni criminali di stampo mafioso e anche quello non fu il frutto di un’intuizione ma il risultato di trent’anni di studio e di analisi del fenomeno». La Torre aggiunge: «Mio padre rifuggiva dalle semplificazioni e sapeva benissimo che i corleonesi erano il braccio armato di un’organizzazione ben più composita. Ancora oggi invece nella narrazione del fenomeno si parla di persone basse, di carnagione scura, che vivono in casolari isolati in campagna con la coppola, mangiano minestra e verdure e parlano in dialetto. Come dire che la guerra la decidono gli eserciti. No, la decidono i capi di Stato e le grandi compagnie economiche». 

Non ci sono riscontri invece sul fatto che i due si conoscessero ai tempi in cui Dalla Chiesa era capitano a Corleone e indagava sull’omicidio di Placido Rizzotto: «Tante volte ci siamo interrogati con Nando (figlio di Dalla Chiesa ndr) su questo ma i tempi non coincidono. Su quello che è un legittimo espediente cinematografico il regista Scimeca conclude così il suo film, ma non c’è riscontro. Sicuramente le loro vite si sono incrociate. Non è escluso che tra i due ci sia stata un qualche tipo di relazione quando mio padre, eletto in Parlamento, fa parte della commissione parlamentare antimafia. Erano negli stessi posti più o meno nello stesso periodo. Si sa, perché è agli atti, che nell’inverno del 1982 mio padre, insieme a una delegazione, si reca dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini per chiedere che il generale Dalla Chiesa venisse nominato Alto commissario per la lotta contro la mafia a Palermo. Richiesta che viene accolta, come si sa, solo in parte. La materia richiedeva un certo riserbo, sicuramente tra i due c’era un gran rapporto di stima». Non a caso, alla domanda sui motivi dell’uccisione di La Torre Dalla Chiesa rispose a Bocca: «“Per tutta una vita“. Sapeva che la mafia non lo aveva ucciso certo per un episodio».

E sullo stato attuale del fenomeno mafioso La Torre aggiunge: «Sarebbe illusorio dire che quel sistema di potere non esiste più. Ha sempre meno quella faccia che ci fa credere che esista. L’importante è continuare con efficacia azioni di contrasto e non pensare che basti mettere in galera un boss ma servono azioni di contrasto politiche, culturali ed economiche. È necessario che quello che al livello mondiale è considerato un sistema di eccellenza, il sistema normativo e legislativo italiano, varchi le frontiere. Smettetela di invidiarci: copiateci». 

Stefania Brusca

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