Ci siamo. Scampata – ma facciamo corna ché non si sa mai – la fine del mondo, anche quest’anno è giunto il Natale. Tra alberi addobbati, strade illuminate da raggi di luce colorata in pura atomosfera da aurora boreale e Santa Claus di plastica arrampicati sul balcone del vicino, è finalmente arrivato il momento tanto atteso da grandi e piccini. Quello di serate in famiglia e giocate a carte con gli amici, godendosi il frutto di tanto sofferto shopping scartando i regali… Ma sopratutto quello delle abbuffate. Sì, proprio loro: le mangiate. Perché, diciamoci la verità, cari concittadini: lo scopo primario del catanese tipo durante le feste natalizie è quello di mangiare. Anzi, ancor meglio di rimpinzarsi con qualsiasi cosa commestibile e potabile fino a costringere il proprio fegato a sventolare bandiera bianca implorando pietà. Per morire sazio e soddisfatto, come Carnevale (che poi è pure un’altra festa ma fa lo stesso). Dal 24 dicembre al 6 gennaio, tutto il resto, per lui, diventa secondario.
Un mondo, quello di cenoni e pranzi natalizi all’ombra del vulcano, che monopolizza l’attenzione e l’impegno delle famiglie etnee. Con una sua storia, sue tradizioni, suoi riti sacri ed imprescindibili. E con personaggi e protagonisti indiscussi, umani e alimentari. Per raccontarvelo, partiremo con un identikit dalle figure tipo che caratterizzano il nostro Natale. Dai fornelli allo stomaco.
La mamma. La mitologia locale la racconta come la dea delle mangiate. Tra i tanti poteri sovrannaturali a lei attribuiti, spiccano i doni di ubiquità e velocità supersonica, ma è del tutto priva del senso delle proporzioni. La genitrice, con la sola imposizione del cucchiaio di legno, riesce a cucinare roba sufficiente a far venire l’indigestione all’intero esercito persiano di Serse (e quelli, mischini, di fame ne avevano assai). Forte della sua pentola straripante di ragù, sa essere una vera dittatrice, costringendo, al grido di «sbuccialepatateepoitaglialacipollamiraccondosottile», marito, figli, nuore, generi, amici e, alle volte, anche vicini di casa ad aiutarla. Per permetterle di portare in tavola una quantità ancora maggiore di pietanze. Si dice che, per riuscire a soddisfare il suo «ma il 24, poi, mi dài una mano a preparare?», ci sia gente che ha dovuto chiedere giorni di ferie dal lavoro a partire da fine novembre. Severa ma giusta, riesce sempre a indovinare i gusti di tutti. Sì, di tutto il genere umano.
Il figlio/figlia che vive al nord/estero. Questi è la vittima induscussa della mamma. Che, anche se la suddetta prole avesse la stazza dell’omino Michelin, verrebbe da lei drammaticamente visto come sempre troppo emaciato. «Mangia ‘a mamma, che sei deperito»: è questa l’unica frase materna loro rivolta durante tutto il periodo delle feste. Secondo i dati dell’Istat, nel periodo che va dal 24 dicembre al 6 gennaio, i pronto soccorso catanesi registrano un anomalo aumento dei casi di ricovero per mal di pancia tra ragazzi non più residenti a Catania e di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Per le mamme nostrane, questo primato è motivo di orgoglio.
Lo zio parsimonioso (ché dire pidocchioso pareva brutto). Figura antinatalizia per eccellenza, assimilabile solo al Grinch o ad un novello Scrooge – che però non ha mai incontrato lo spirito del Natale futuro -, in lui si manifesta una forma di impunita avarizia che supera di gran lunga quella di un ipotetico Paperon De Paperoni genovese. Cosciente del suo difetto – che però considera una grande qualità – invita tutta la famiglia a casa sua per il pranzo cruciale del 25. Durante il quale, pieno d’orgoglio e senza alcuna vergogna, servendosi della subdola scusa di aver assecondato il vostro scarso appetito dovuto all’abbuffata della sera prima, porterà in tavola tristissimi piatti contenenti un brodino semitrasperente con a mollo tre tortellini. Di quelli piccoli e secchi. E senza parmigiano, «perché a casa mia stiamo attenti alla linea». A coronare la convivialità, i resti del pandoro – rigorosamente nella busta di plastica – aperto la sera prima.
Ma questi sono solo comprimari. Il protagonista indiscusso delle tavole resta sempre il cibo. In quantità immonde. Lui, la star natalizia per eccellenza, frutto di tante fatiche, di fila alle casse, dispendio di denaro e notti insonni. Una tribolazione che però i catanesi sopportano ben volentieri, in quanto disposti a tutto pur di imbandire le loro tavole nella festa per eccellenza. Tra tradizioni popolari, evergreen e buttanisimi moderni.
Della prima categoria – ma anche un po’ della seconda – fa parte l’indiscussa regina della cena della vigilia di tutti i tempi: la scacciata con la tuma. Lei, che domina sulle sue insulse concorrenti ripiene di patate, cavolfiori o salsiccia, per i catanesi è una certezza. Rigorosamente fatta in casa (comprarla al panificio rappresenta un’onta da lavare col sangue), la sua preparazione richiede di solito giorni di lavoro. A questo scopo, in ogni casa etnea viene eretto un tempio in suo onore, preparando in frigo lo spazio necessario ad accogliere il monolite di tuma (comprata a Piscaria, «ca sapi chiù bella») da conservare – e venerare – in attesa di trasformarla nella più amata delle farciture. Arricchita, in base ai gusti, di anciove (acciughe, ndr), cipollina lunga e tonnellate di pepe nero. Da mangiare, prima del brindisi di auguri, ad una temperatura di 200 gradi Fahrenheit. Per questo, è stata eletta piatto del secolo dal sindacato degli sputafuoco. Anche se i veri intenditori la preferiscono fredda. E il giorno dopo. Gli stomaci più forti, la gradiscono anche come colazione del mattino, accompagnata da caffelatte bollente.
Ovviamente, per l’esagerata tavola dei catanesi, questo è solo l’antipasto. Anzi no, ché l’antipasto natalizio è materia altrettanto vasta. Si comincia con le classiche tartine di uova di lombo nero e rosso (che qui, per partito preso e senza averne diritto, chiamiamo caviale), passando per il moderno salmone, che in alcuni contesti più evoluti va a sostituire quadretti di salumi e formaggi iperstagionati o pezzetti della tremenda aringa affumicata, capace di rendere il frigorifero in cui viene conservata inaccessibile causa emissioni tossiche per diversi giorni. I più chic, invece, si cimentano in delicati cocktail di gamberetti e voulevant riempiti delle più svariate salse. Fino ad arrivare al buttanisimo per eccellenza, da ricercare solo negli ambienti di un certo livello: il patè de foie gras. Che sì, esiste davvero, non solo nei film. Anche se, in base a quanto è emerso da un sondaggio realizzato tra le vie cittadine, gli etnei veraci vi preferiscono di gran lunga il folkloristico zuzzo (gelatina di maiale, ndr).
Un capitolo a parte lo meritano gli innumerevoli contorni del Natale. Tra cui hanno un posto d’onore i mitici broccoli affucati (affogati nel vino, ndr), intercambiabili con i più famosi e amati bastaddi (cavolfiori, ndr). E poi le immancabili caponatina e pammiggiana, rigorosamente fritte e grondanti olio arancione. Il loro grado di qualità – e bontà – si può facilmente desumere dalla fluorescenza del suddetto olio. Pietanze, queste, che nel finissimo palato catanese si sposano con i sapori di altri due evergreen delle feste dicembrine: il baccalà e l’anguilla (che, d’ispirazione tarantiniana, viene scelta, comprata e affettata rigorosamente viva), anch’essi fritti.
Ed eccoci arrivati ai primi, che di solito vengono consumati durante il faraonico pranzo del 25. Qui annoveriamo, ad esempio, tutte le possibili declinazioni della pasta al forno, inondata di besciamella e ragù. A cui, ultimamente, vengono spesso preferiti piatti di mare, come spaghetti allo scoglio – scocce di cozze comprese – e risotti alla marinara. Stesso discorso per i secondi, in cui, secondo tradizione, a farla da padrone è il sugo. Anzi, ‘a sassa (salsa di pomodoro, ndr). Polpette, salsiccia, carne e il mitico falsomagro: un arrotolato di carne farcito con tutto quello che è rimasto in frigo. E che, come dice il nome stesso, sembra innocuo ma è causa di alcune tra le più terribili forme di indigestione. Altri ancora, invece, scelgono di preparare un semplice pollo ripieno. Peccato che il volatile in questione abbia le dimensioni di un elefante adulto e sia stato riempito di ogni leccornia. A sorpresa. Si narra che qualcuno ci abbia trovato addirittura un anello di fidanzamento. Anche qui abbiamo le varianti moderne da annoverare nel genere buttanisimi come capponi, faraone o le superchic anatre (purtroppo non solo all’arancia).
Infine, eccoci arrivati ai dolci. Ultimi, ma non per importanza. Dai tradizionalissimi cucciddateddi con i fichi secchi, ai mustazzoli (biscotti fatti con il vino cotto, ndr), entrambi – ahinoi – quasi scomparsi dalle nostre tavole. Probabilmente per far posto a panettoni e pandori, dolci di origini nordiche ma facilmente reperibili nei supermercati, che il catanese moderno, non contento di tutto quello che ha trangugiato prima, ama accompagnare con zabajoni alcolici o salse al cioccolato e caramello. Oppure dal classico tronchetto al cacao, nato in Francia ma anch’esso finito presto, in versione ridotta e al gusto di compensato, sugli scaffali della grande distribuzione. Ma c’è anche chi, stanco di cioccolatini svizzeri e anglofoni gingerbread (i biscotti di zenzero a forma di omino sorridente, ndr), innalzata la bandiera del patriottismo siculo, si addolcisce le feste con l’immancabile cannolo di ricotta, accompagnato da torroncini, paste di mandorla e fruttini di pasta martorana. Per chiudere la maratona gastronomica – in bellezza e con i bottoni in procinto di saltare e cavare un occhio al commensale di fronte – ecco infine l’immancabile frutta secca: noci, arachidi, pistacchi, datteri, prugne e fichi. A quella, nonostante l’abbuffata e il rischio di collasso cardio-circolatorio, non si rinuncia mai. Magari accompagnandola con qualche bicchierino di liquore. Ché ormai, si sa, «jurnata (o nuttata) rutta, rumpila tutta».
Tanti auguri! E buon appetito.
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