Ti dicono arruolati, girerai il mondo, conoscerai gente. Ti guardi un po’ intorno, sei giovane, l’ambiente è magari ostile, poche prospettive di miglioramento, scettico al punto da credere a qualsiasi cosa. Rumini il pensiero e parti. Speri che un commiato veloce sia meno doloroso: ti costringi ad un rapido saluto a babbo e mamma –  occhi sbarrati, e quando mai? testardo come sei, potrebbero farti cambiare idea?- e stacchi un addio ai monti da dignità letteraria. Te ne vergogni un poco, certo, ti pare cosa da femminuccia timorata di Dio, ma quel muso che ti monta su non puoi proprio nasconderlo. Tanto torni, magari non per le feste, ma, fra congedi licenze permessi, i vecchi li rivedi, i luoghi non si perdono. E pure questa, nuova non ti suona.

Impili 364 giorni di preparazione: velocità e mimetismo sono ordini che ormai ti martellano il cervello: precisione innanzitutto. Sarà che quell’imperativo categorico kantiano t’ha un poco scocciato, sarà  che temi di trovarti di fronte gente ingrata e  mocciosi urlanti, pronti con gli anni a disconoscere i tuoi meriti – quanti saranno oramai? la maggior parte? – ma a pochi giorni  dalla missione sei nervoso, scalpiti quasi,  intrattabile più del solito, in quel posto  dimenticato da Dio e dall’uomo. Ti soccorre l’ironia: la chiami la Santa Clausura. Ma è peggio: gli altri intorno a te non la capiscono, che bestie! Non gli metti le mani addosso perché non puoi, ma dal tirargli due calci devi proprio trattenerti. E poi c’è lui, un turco emigrato al nord per chissà quali motivi: all’inizio era stato il suo carisma ad attirarti fin lì, freddo fame fatica come semplici prove di forza e coraggio, deluderlo ti pareva sacrilegio, testa bassa e via. Ma poi? Succede che durante un’esercitazione, la solita esasperata, esasperante, gara con te stesso e il tempo, ti volti un attimo a guardarlo – l’hai fatto quante volte? Milioni? Sempre a cercare lo stesso sguardo paterno, quello che ti spianava dossi e riscaldava sangue cuore cervello – e puf, scomparso. Al suo posto un irriconoscibile  tizio con la bazza lanuginosa, guance rubiconde da avvinazzato, pastrano di colpo logoro lacero liso,  un gusto sadico, diresti, a impartire ordini e spartir frustate. Ma giusto un attimo, ché  tutto ritorna normale: sei stanco, il freddo ha superato pelo pelle muscoli e ora ti riveste le ossa, magari dubiti un po’ di te stesso. Quel tizio di robusta complessione – è un poco permaloso, ti sei preso un cazziatone una volta per averlo definito ciccione! – è tornato ad essere l’affettuoso vegliardo del primo giorno. Eppure.

Eppure non è che ti fidi più tanto, ti scopri malpensante e non sei il solo: guardare gli altri è come rimirarsi in uno specchio. Inizi a dar attenzione peso senso ad ogni cosa: d’altronde, se ha cambiato colore del cappotto solo per  pubblicizzare uno scuro intruglio dolciastro – te l’ha fatto pure assaggiare un giorno, hai ruttato per due – lo ritieni capace di ogni nefandezza.  Della nobiltà del suo fine ne parlerai a missione compiuta, quando le ferite sul dorso si saranno rimarginate. Fino ad allora smadonni in silenzio. D’altronde, li capirebbe i tuoi lamenti? Forse, come l’Orfeo di quel siciliano,  ha bisogno del sacrificio di una seppur stramba Euridice cornuta per portar a compimento il proprio lavoro missione destino. L’ennesimo accostamento ad un libro letto, chissà dove chissà quando, ti ruba un sorriso: è il rigurgito di un tempo passato, in cui la vita la vivevi filtrata da libri, pensieri sentimenti esistenze altrui. Avevi scelto, arruolandoti, di viverla, di romperti le corna à la lettre, di vedere il mondo accadere. A meno di non essere pure tu una fantasia, un fantasma di pixel incorporei, il sogno di un insonne che scrive  un articolo promesso.

Sarà, ma  quel ciccione  rubizzo, dal volto irsuto, ci scommetteresti pure alticcio, ti schianta a staffilate sul reale così dolorosamente da fugare ogni dubbio sulla tua esistenza. Bastava un pizzicotto, porca vacca!

Ti giri, un secondo prima di schioccare la frustata che ti farà partire saltare volare, e lo cogli quel lampo, nei suoi  occhi, di sapida cattiveria goduria follia e pensi: anche una renna, per certo strana, può smoccolare, pure questa notte: che stronzo, Babbo Natale!

 

Sergio Russo

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