Il protagonista principale è sempre lui: Mohammed Alì Malek. Trentenne tunisino, accusato dalle autorità italiane di essere il capitano che conduceva l’imbarcazione, poi affondata, che il 18 aprile 2015 causò una delle più imponenti stragi di migranti nel mare Mediterraneo. Un caso di rilievo internazionale concluso, in primo grado, con le condanne a 18 anni per Alì Malek e a cinque anni per il mozzo Mahmud Bikhit. In mezzo una lunga serie di contestazioni, compreso l’omicidio colposo plurimo e il naufragio. Adesso a scrivere un nuovo capitolo di questa vicenda è il processo di secondo grado. Con l’avvocato etneo Massimo Ferrante, difensore di Alì Malek, convinto dell’estraneità in quella strage del suo assistito. Tesi che si basa principalmente sulle presunte manovre errate compiute dalla nave cargo King Jacob, arrivata quella notte in soccorso del peschereccio che navigava in balia del mare in tempesta, dopo aver percorso poco più di 152 chilometri dalla Libia.
Insieme al cargo, battente bandiera portoghese, venne dirottata – dalla centrale operativa della guardia costiera di Roma – anche la nave Bruno Gregoretti per il successivo trasbordo. Durante le manovre di avvicinamento del primo natante con il peschereccio stracolmo di migranti, distribuiti su tre livelli, si verifica il passaggio fondamentale per l’evolversi della vicenda: per la difesa il peschereccio sarebbe stato prima colpito violentamene dalle onde, a causa dell’avvicinamento del mercantile, per poi, a causa dell’errata esecuzione della manovra di salvataggio, con il comandante che avrebbe virato a destra anziché a sinistra, ribaltarsi. Si salvano soltanto in 28 e saranno proprio questi dettagli a diventare decisivi nell’ambito dell’inchiesta. Per l’accusa la responsabilità sarebbe da ricondurre tutta ad Alì Malek e ai suoi spostamenti in mare, mentre per il suo difensore Ferrante ci sarebbe «una corresponsabilità colposa del mezzo di soccorso».
Il legale passa in rassegna la ricostruzione del comandante della King Jacob Abdullah Ambrousi. Paragonando una prima relazione scritta dopo l’incidente, e consegnata alla guardia costiera italiana, e la successiva testimonianza davanti gli inquirenti etnei. Nella versione iniziale, stando ai documenti, il comandante avrebbe descritto la sua nave come «ferma», mentre durante la seconda deposizione descrive la porta container con i motori spenti ma ancora sotto la spinta propulsiva dei macchinari a una velocità di tre o quattro nodi. Subito dopo, sotto la lente d’ingrandimento finisce la manovra per effettuare il salvataggio in mare. Tecnicamente chiamata di Williamson, consiste nel girare la prua, ossia il muso della nave, verso i naufraghi in modo da tenerli lontani dalle eliche dei motori. Una manovra effettuata «in maniera errata», per Ferrante, e che avrebbe concorso nel determinare il ribaltamento e il conseguente affondamento del peschereccio.
Tra i punti elencati nell’impugnazione della sentenza ci sono anche le testimonianze dei superstiti. «Nessuno ha avuto modo di accertare la continua presenza di Alì Malek all’interno della plancia di comando per tutta la durata del viaggio e fino alla collisione», scrive Ferrante nel documento di circa 40 pagine con il quale ha impugnato la sentenza della giudice Daniela Monaco Crea. L’avvocato per il suo assistito chiede anche la concessione delle attenuanti generiche in virtù «dell’eccessività della pena inflitta». La partita ricomincia.
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