«Prima di arrivare in Cina non avevo nessun grillo cinese per la testa. Non ero tra quelli che si interessano di mercati e di economia. Anzi, io la Cina non lavrei mai considerata nel mio mappamondo mentale, nemmeno per andarci in vacanza». A parlare è Agata Gerbino, 28 anni, una laurea in Comunicazione internazionale a Catania e un master in Interpretariato a Torino. Originaria di Acireale, è una delle siciliane che ha deciso di andare via in cerca del proprio futuro. E oggi vive a Shangai, dove insegna lingua inglese e saltuariamente fa qualche interpretariato di trattativa. Mentre studia cinese.
«La mia storia è abbastanza diversa dal resto degli expat che puoi trovare a Shanghai – racconta – La maggior parte di loro è venuta qui con delle sicurezze, di solito sotto forma di contratto italiano (molto più vantaggioso di uno cinese) che gli permettesse di non doversi preoccupare troppo e godersi più che altro la dolce vita shanghainese. Altri invece vengono per approfondire la lingua all’Università, magari avendola già studiata nei propri paesi. Per me, invece, è stato un salto ne buio», spiega. «Tutto è iniziato quando l’azienda per cui lavora il mio ragazzo si è spostata qui e lui mi ha proposto di seguirlo. Non sapevo nulla di questo posto, non avevo mai studiato cinese, non conoscevo la cultura orientale e, tutto sommato neppure mi interessava più di tanto», ammette. «Non sapevo nemmeno se sarebbe stato facile trovare lavoro, e che lavoro. Ma, alla fine ho deciso che valeva la pena provare. D’altronde – continua – a Catania il lavoro nemmeno riuscivo a trovarlo. E l’unica cosa che mi legava ancora a casa erano la famiglia e gli amici».
Una scelta, quella di lasciare tutto e partire, fatta un po’ per caso, un po’ per necessità che, però, ha piacevolmente stupito Agata, oggi residente a Shangai da due anni. «Della Cina racconta mi ha subito colpita quanto fosse moderna e tutto sommato occidentale. Per certi versi Shangai è una specie di isola felice, non per altro è considerata la vetrina della Cina. Già pochi mesi dopo il mio arrivo avevo trovato un impiego come insegnante di inglese in una scuola dove lavoro tutt’ora». Anche se a diecimila chilometri lontana da casa.
Una distanza che Agata, però, avverte poco, se non nella mancanza degli affetti. L’Italia e la Cina, dalla sua esperienza, sono descritte come «due entità estremamente diverse, ma con più punti in comune di quanto si possa immaginare», dice. «Uno di questi è il senso di centralità della famiglia e il fatalismo dei cinesi, che ricorda molto quello siciliano racconta Ma anche lamore e lorgoglio per il proprio cibo, nella convinzione che al di fuori di quello, tutto il resto è solo spazzatura. O ancora la tendenza, italiana e siciliana, di affidarsi alle cosiddette conoscenze. Che qui si chiamano guanxi e sono il mezzo tramite il quale si va avanti in tutti gli ambiti – continua – dall’ingresso in un locale all’ottenere un colloquio di lavoro. Una mentalità che puzza ancora di mafia, di favoritismi, di clientelismo e purtroppo non ha confini geografici».
Shangai come Catania, quindi. Con la differenza che le possibilità di impiego non mancano e che, a differenza dei catanesi, i cinesi non si sbilancino quasi mai. «Ho avuto più volte conferma – dice Agata – che non riescono mai a dare opinioni nette. Un cinese non è abituato a esprimere gusti o preferenze né con troppo entusiasmo né con troppo distacco, secondo un principio di armonia in cui non sbilanciarsi è la regola principale. E che per un italiano, invece, può essere abbastanza frustrante», prosegue. «Ma dopo quasi due anni a Shanghai, ci si abitua pure a questo. Daltra parte, anche io sto portando avanti la mia sottile opera di sicilianizzazione del continente giallo», racconta con orgoglio. «La prima cosa è stata convertire i miei amici cinesi al saluto col bacio sulla guancia. Ma la soddisfazione estrema è sentire ancora oggi il mio migliore amico cinese presentarsi con la frase: Mi chiamo James e sugnu fimminaru. Impagabile».
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