La storia dell’imprenditore Misuraca finisce al ministero «Da vittima del racket chiedo di lavorare in sicurezza»

«Noi chiediamo soltanto di potere continuare a lavorare, di avere il risarcimento che ci spetta e di vivere in sicurezza». Sono queste le richieste che Filippo Misuraca e sua moglie Margherita Landa hanno fatto durante l’incontro di mercoledì scorso, durato circa un’ora, con il viceministro dell’Interno Vito Crimi. «Abbiamo un nuovo appuntamento a Roma fissato per giovedì», dice a MeridioNews il titolare dell’azienda edile che, dopo essere stato preso di mira dal clan dei Lo Piccolo, ha denunciato ed è stato riconosciuto vittima del racket nel 2015. «Non ho ancora visto un centesimo, non sento che io e la mia famiglia siamo tutelati a dovere e come se non bastasse – aggiunge Misuraca – ho dovuto lottare per oppormi all’istanza di fallimento presentata da Riscossione a gennaio».

All’inizio Misuraca paga per la classica messa a posto. Le richieste da parte del clan aumentano e, dopo circa sei anni dall’inizio delle estorsioni, le intimidazioni travalicano la sfera professionale per intaccare quella personale. È il 2013 quando l’imprenditore decide di denunciare. «”Digli a tuo marito di godersi i suoi figli” è stata questa frase che hanno detto a mia moglie – ricorda Misuraca – A darmi la forza di intraprendere la difficile via della denuncia». 

Proiettili, teste d’agnello o di maiale mozzate, macchine bruciate, mezzi danneggiati, un cavallo senza zampe e quattro cani senza testa. Sono alcune dei 35 atti intimidatori che Misuraca ha ricevuto negli anni. «Sgannatici i amme, e vedete se paga», è una delle minacce intercettate. Le sue denunce hanno portato ad arresti e processi «con un bilancio di quattro ergastoli e quattro Comuni sciolti per mafia». Un risultato importante che, però, ha avuto delle conseguenza nella vita privata e professionale di Misuraca. «Il clima di omertà è ancora forte. Spesso mi sono sentito dire “ma chi te l’ha fatto fare?” e – ammette – qualche volta me lo sono chiesto pure io visto che lo Stato non è stato presente come avrebbe dovuto».

E, anzi, a gennaio all’imprenditore ha pure presentato un conto. «Come ultimo regalo, mi è arrivata un’istanza di fallimento – racconta Misuraca – Noi ci siamo opposti, abbiamo fatto ricorso e, per fortuna, abbiamo vinto». La sua storia, qualche mese fa, era arrivata anche in commissione nazionale Antimafia con un’audizione durata circa tre ore. «Adesso siamo fiduciosi nella disponibilità del viceministro Crimi di contattare il prefetto di Palermo per provare a migliorare la nostra situazione dal punto di vista della sicurezza». Al momento, la misura per Misuraca prevede una bonifica del cantiere o davanti casa da parte dei carabinieri prima dell’arrivo dell’imprenditore. 

L’impresa fondata nel 1995, quando Misuraca aveva appena 19 anni, prima di essere presa di mira dalla mafia aveva un organico di più di 60 operai e fatturava tra i 4 e i 5 milioni l’anno. «Adesso, con difficoltà supero un milione e ho dovuto ridurre i lavoratori a 21, me compreso – racconta – Mi sono rimesso gli scarponi da lavoro e pianto anche i chiodi, quando è necessario». Per il Covid anche Misuraca ha dovuto fare ricorso alla cassa integrazione per i propri operai. 

E, nella fase di emergenza sanitaria ed economica, ha denunciato come le mafie si sono organizzate per trarne vantaggio. «È stato un momento in cui approfittare per reclutare manovalanza in cambio di una busta di spesa o di una promessa di lavoro». Ben prima del coronavirus, da grandi lavori pubblici (come la costruzione di scuole e caserme), l’impresa è passata a piccoli lavoretti di ristrutturazione di villette private. «Tra i miei clienti sono rimasti solo carabinieri, poliziotti e qualche finanziere. Perché – conclude Misuraca – qui io per tutti sono diventato lo sbirro, quindi mi evitano». 

Marta Silvestre

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