La storia del prete cristiano che viene dall’Eritrea «Prima della Diciotti, aiutati dai militari maltesi»

«Prima è arrivata la guardia costiera maltese: hanno dato giubbotti di salvataggio, acqua e da mangiare. Ma non ci hanno salvati, ci hanno detto di seguirli con un telefono satellitare che aveva un egiziano. Noi continuavamo ad andare avanti, loro ci hanno guidati fino al posto in cui poi è arrivata la nave Diciotti, quando il mare ha cominciato a essere agitato». D. ha 33 anni ed è un prete cristiano ortodosso. È uno dei cittadini eritrei che sono sbarcati a Catania sabato sera, dopo cinque giorni bloccati al porto in attesa del permesso di scendere a terra. È magrissimo. La pelle sembra attaccata alle ossa e gli occhi sporgono dalle guance. Quando è riuscito a parlare con un nipote, che vive in Germania, la prima cosa che gli ha detto è stata: «Sono io, sono vivo, sono vivo». Sopravvissuto dopo un anno e tre mesi segregato nelle prigioni libiche: «Ho pagato più di cinquemila dollari – racconta in esclusiva a MeridioNews – Funzionava così: ogni volta che i libici volevano soldi, noi venivamo picchiati. Passavamo da un gruppo di libici all’altro e ogni volta ci picchiavano. Le torture erano una cosa normale».

Talmente normale che mentre era lì sarebbe voluto tornare nell’Eritrea da cui è fuggito nel 2012. Perché, sebbene fosse un prete, era stato arruolato a forza nell’esercito e, quando scappava, lo cercavano e lo trovavano. Da una città all’altra, fino al momento in cui ha lasciato la moglie e i figli ed è andato in Etiopia. Poi, da lì, in Sud Sudan. «Per un periodo ho continuato a fare il prete in Etiopia, in una chiesa. Ma dopo un po’ ho smesso, ho cominciato a tentare di fare il commerciante, a spostarmi da un posto all’altro – continua – Il Sud Sudan è il posto peggiore in cui io sia stato. Nella mia comunità ho visto venire uccise dall’esercito almeno 50 persone: ogni mese venivano e ne uccidevano uno, due, tre, a caso». Quella paura ha fatto sì che intraprendesse il viaggio verso l’Europa: l’Italia, la Germania, un altro Paese non importa.

«Quando sono arrivato in Libia non sono più riuscito ad avere contatti con mia moglie. So che è partita poco dopo di me. Di lei mi sono arrivate solo delle voci: qualcuno mi ha detto che è arrivata in Italia, qualcuno che è morta prima». Scrive su un foglio di carta il suo nome, spera di riuscire a rintracciarla, se è sopravvissuta. «Ai miei figli ho detto di restare in Eritrea: in qualche modo, se fossi rimasto vivo, li avrei aiutati a raggiungermi. Ma quel viaggio è troppo pericoloso, non potevo pensare che passassero quello che ho passato io con i libici». Così loro sono rimasti in Africa, mentre a lui neanche sembra vero di essere riuscito a uscirne.

Sulla Diciotti, quando è approdato al porto di Catania, le informazioni non erano moltissime. Sapeva soltanto che l’Italia non li voleva, aveva paura di essere rispedito indietro. Guardava quello che succedeva nell’infrastruttura etnea dalla balaustra sul ponte. Indossa ancora la maglietta bianca della Croce rossa, i pantaloncini blu e le infradito di plastica. «Ho visto in tv che sono scesi tutti», spiega lui, che ha anticipato i compagni di viaggio di qualche ora per motivi sanitari. «Ci hanno detto che stavano negoziando con altri Paesi – prosegue – Non so dove finirò, ma adesso voglio sapere che fine ha fatto mia moglie».

Luisa Santangelo

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