A dispetto di una pubblicistica intrisa di pregiudizi e bugie strumentali, i numeri delle analisi economiche ci parlano di un Sud Italia in ginocchio a causa di di politiche nazionali essenzialmente ‘nordiste’. Lo ha messo nero su bianco la Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, fondata dal meridionalista, Pasquale Saraceno, che spiega chiaramente come larretramento del Sud sia stato determinato da un progressivo disinteresse dello Stato centrale verso la questione meridionale. Vi abbiamo illustrato i dettagli di questa ricerca in questo articolo: Le solite bugie sul Sud Italia.
Non c’è dubbio che, nel contesto di questo quadro a tinte fosche, la Sicilia abbia pagato il prezzo più alto in virtù del suo Statuto speciale che da 66 anni vieni puntualmente massacrato dallo Stato italiano.
Ma, in termini economici, cosa significa esattamente la mancata attuazione dell’Autonomia regionale? Ancora una volta, al di là delle campagne mediatiche ben orchestrate dai poteri forti del Nord, i numeri ci aiutano a fare luce sulle tenebre delle falsità il cui obiettivo resta, fino a prova contraria, quello di mantenere l’Isola nel sottosviluppo.
A fare due conti, ha pensato il dcente universitario di Economia aziendale, Massimo Costa, tra i maggiori esperti in tema di Autonomia sicilianaa,nel corso di un suo intervento ad un dibattito organizzato dall’Accademia della Politica.
La premessa è sempre la stessa: lo Statuto siciliano è stata la risposta ad istanze secolari di autogoverno da parte dei siciliani. Non è dunque un fatto incidentale, ma strutturale e fissato nella Costituzione italiana. Anche se, di fatto, la sua mancata attuazione, determina un rapporto incostituzionale ed illegale tra lo Stato e la Regione siciliana. Ma tant’è.
Veniamo alle cifre cominciando con la mancata territorializzazione delle imposte, garantita dall’articolo 37 dello Statuto che così recita: “Per le imprese industriali e commerciali, che hanno la sede centrale fuori del territorio della Regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, nell’accertamento dei redditi viene determinata la quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi”.
Quanto costa alla Sicilia il massacro di questo articolo scandalosamente nagato dalla Corte Costituzionale (evidentemente sostenuta da un terreno politico) in più sentenze?
Mancano all’appello 8 milardi di euro l’anno: 5 miliardi di imposte sui redditi; 3 miliardi di Iva.
Esempi: Quando entriamo in un supermercato, l’imposta sui prodotti che compriamo con i nostri soldi, viene incassata da altri territori. Il nostro gettito tributario finanzia altre realtà italiane, del Nord Italia principalemnte. La stessa cosa succede con i nostri soldi nelle banche: i profitti derivanti dai nostri risparmi volano via dalla Sicilia. Lo stesso succede con le assicurazioni e così via. “A noi rimane praticamente solo l’Iva dei panellari” scherza il prof Costa.
Nel capitolo della mancata teritorializzazione delle imposte sui redditi, in cui rientra la famosa questione legata alle accise sui prodotti petroliferi, in verità mancherebbero all’appello 20 miliardi euro l’anno. Accettando il principio di comparteciazione dei tributi erariali stabilito della riforma del titolo V dellaCostituzione, e fissando al 25% (sempre per difetto) la quota di tributi che, spetterebbero alla Sicilia, il furto legalizzato ammonta a 5 miliardi di euro l’anno. Briciole, ma pur sempre consistenti per le casse regionali se potesse incassarle. Ma ovviamente su questo punto, i telefoni con Roma si sono rotti.
Veniamo alle entrate parafiscali (secondo l’articolo 20 dello Statuto,bisogna devolvere tutto alla Sicilia, comprese le gestioni previdenziali) : il gettitto previdenziale in Sicilia è pari a otto miliardi di euro l’anno, cifra superiore di un miliardo alle pensioni pagate in Sicilia.
A questo bisogna aggiungere il fatto che la Regione non dovrebbe pagare nessun pedaggio (come a Terna per gli eletrodotti) per l’utilizzo del proprio demanio. Al contario dovrebbe incassare almeno un miliardo di euro l’anno, cifra che, invece paga al l’Italia per potere usare le proprie infrastrutture.
Ancora, secondo l’articolo 41 dello Statuto (: “Il Governo della Regione ha facoltà di emettere prestiti interni”), la Sicilia, come lo Stato, potrebbe emettere titoli di debito pubblico con interessi bassissimi. Invece, la mancata applicazione di questa norma, si traduce nella necessità per le istituzioni dell’Isola, di indebitarsi con il sistema bancario (e la massoneria) internazionale con tassi che superao il 5%. Risparmio stimato, qualora si ponesse fine a questo latrocinio: un miliardo di euro l’anno.
Per quanto riguarda la mancata attuazione dell’articolo 38 dello Statuto (Fondi di perequazione) e 119 della Costituzione (Fondo di solidarietà nazionale) : la stima del Prof Costa, sempre al ribasso, è di 5 miliardi di euro l’anno.
A tutto questo bisognerebbe aggiungere i benefici che potebbero derivare dalla fiscalità di vantaggio (sempre negata alla Sicilia) implicita nell’articolo 36 dello Statuto “Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. 2. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto.
Difficile fare una stima in questo caso. Certo è, come sottolinea il prof Costa, questo comporterebbe una imediata dislocazione di siti produttivi dal Nord alla Sicilia.
Tutto questo a fronte di una maggiore spesa per la Sicilia (che deriverebe dal trasferimento delle funzioni quali: Finanza locale, Pubblica Istruzione, Assistenza, Sanità) di circa 12 miliardi di euro, secondo le stime fornite qualche tempo fa dell’assessorato regionale al bilancio.
Conclusioni.
I dati forniti vanno aggiornati e potranno essere perfezionati. Ma, la sostanza non cambierà di molto. Miliardo più, miliardo meno, la Sicilia regala all’Italia almeno 10 miliardi di euro l’anno.
Centocinquantanni di unità? No, di bugie (e omissioni)
Le solite bugie sul Sud Italia
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