Con il cuore fermo, Sicilia è l’opera più nota di Gianfranco Mingozzi – uno dei migliori documentaristi italiani, assistente alla regia di Federico Fellini in La dolce vita e 8 ½ – ma anche la più travagliata, per le difficoltà che il regista ha dovuto affrontare per portarla a termine.
Il documentario, inizialmente prodotto da De Laurentiis, era nato nel 1962 (da un’idea di Cesare Zavattini, con il titolo originario La Violenza) come un lungometraggio sul sociologo e poeta Danilo Dolci che proprio in quegli anni, trasferitosi dal Nord nella provincia palermitana, si batteva contro lo strapotere mafioso.
“L’idea di Zavattini – dice Mingozzi nell’intervista Come muore un film inserita nel dvd del documentario – era di fare un viaggio in Sicilia attraverso gli occhi di Dolci. Dolci era un pazzo, a pensare da solo di poter modificare gli uomini e il paese e però l’ha fatto, ci è riuscito, aveva volontà e coraggio ma aveva anche paura, era un uomo. Si sentiva protetto dagli abitanti del suo quartiere che lo amavano. Ma da chi non era intorno a lui la sua azione era vista come al di fuori di ogni logica”.
Dolci era, infatti, un uomo che cercava con la sua lotta di far prendere coscienza dei gravi problemi di povertà e di mafia in Sicilia, ciò porto inevitabilmente l’opera a svilupparsi come una delle prime documentazioni della mafia, ma fu per questo bloccata a causa della rinuncia di De Laurentiis a portare a termine il progetto. “Dopo tre settimane di ripresa De Laurentiis vide il materiale e bloccò subito il film – aggiunge Mingozzi. C’era del materiale scottante, come un‘intervista alla famiglia di un sindacalista ucciso, e De Laurentiis fece addirittura fallire la casa produttrice che doveva produrlo. Ciò bloccò legalmente il materiale che avevamo girato. Cercammo quindi di finanziarci da soli”. Girò così dell’altro materiale, quello che si vede in Con il cuore fermo, Sicilia e chiese a Sciascia di scrivere il commento: “Sciascia mi sembrava assolutamente indispensabile come commentatore del film”.
Dopo anni di lotte anche legali, e dopo l’intervento di Sciascia, i materiali girati divennero nel 1965 il documentario Con il cuore fermo, Sicilia che vinse il Leone d’Oro alla mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e l’anno successivo venne candidato all’Oscar.
Il film di Mingozzi è il primo documentario sulla mafia e il primo esempio di cinema-saggio sulla questione meridionale. Fornisce un quadro in bianco e nero della Sicilia, “un’isola varia come un continente” come la definisce Sciascia nel suo commento, e dei suoi problemi – l’emigrazione, la violenza, la mafia e la miseria – raccontati per immagini in modo lucido e allo stesso tempo poetico.
L’opera è costruita dall’intreccio delle immagini documentarie in movimento, le foto di cronaca nera, che nel loro fissare la violenza risultano ancora più drammatiche e forti, il testo in italiano e il commento musicale in dialetto. Si apre con immagini di emigranti in partenza verso il Nord commentate da dati sulla povertà di queste persone come quello riguardante il bassissimo reddito pro-capite. Si analizza così la condizione dei lavoratori: contadini e minatori, immagini di terre arse e desolate e di miniere affollate da operai nudi. Entra poi in campo l’argomento mafia: i morti, i carabinieri, la disperazione delle donne e i comizi antimafia. Si prosegue con le scene che riguardano Danilo Dolci, che con gli abitanti di Roccamena protesta per la costruzione della diga sul Bruca, contro lo spreco della ricchezza siciliana.
La telecamera si sposta a Palermo, centro degli accordi illegali e scenario di omicidi e funerali. Il commento fornisce dati sulla mafia (“250 omicidi, di cui 40 sindacalisti, attribuiti alla mafia nel decennio 1951-61. nel ’62: 42 omicidi, 74 tentati omicidi, quasi 50 attentati al tritolo”) mentre le camionette di agenti in borghese setacciano le strade della città per arrivare poi all’interno del carcere dell’Ucciardone. Il documentario si conclude con una sequenza in uno dei più poveri quartieri palermitani, in contrasto con lo sfarzo e la bellezza dei palazzi del potere, e l’inquadratura finale mostra un bambino sul letto col viso pieno di mosche.
Colpisce come fin dalle prime immagini appaiano i bambini nelle scene di omicidio, come a voler dire che con la mafia non si viene a contatto da adulti, ma fa parte della vita di tutti fin dalla nascita. Impressionano le condizioni disumane delle solfare dove si lavorava nudi e non esisteva alcuna misura di sicurezza. Addolora vedere come i dubbi sulla riuscita della lotta pacifica di Dolci siano gli stessi che si hanno oggi: “arriverà questa protesta ai centri del potere?”. Sconvolge l’attualità delle problematiche e delle osservazioni sui legami tra mafia e potere, ma d’altronde il documentario racconta proprio il momento di passaggio tra l’antica mafia del feudo e la “giovane mafia” che aspira ai centri del potere.
Mingozzi torna in Sicilia molti anni dopo col il progetto La terra dell’uomo, un film inchiesta per la TV che si proponeva di raggruppare il materiale girato negli anni Sessanta e nuovo materiale per mostrare cosa era cambiato in Sicilia. Venne completato nel 1988 ma non è mai andato in onda.
“Quindici anni dopo riuscii a comprare il materiale che era stato bloccato dal fallimento – racconta il regista riguardo il nuovo progetto degli anni ’80. E riuscii a interessare la terza rete per un programma in tre puntate: la prima puntata dal titolo’ Come muore un film’ in cui raccontavo le vicissitudini di come non ero riuscito a finire ‘La violenz’a; la seconda puntata dedicata al ritratto di Dolci, in bianco e nero degli anni ‘60 e a colori degli anni ’80, anni in cui Dolci aveva abbandonato la lotta attiva e si accingeva a diventare un educatore e un maestro; la terza era incentrata sulla violenza in Sicilia fino agli anni ’85-’86, ma il programma non è mai uscito”.
Il progetto conteneva anche diverse interviste, allo scrittore Vincenzo Consolo, alla fotografa Letizia Battaglia, premiata per le sue foto di cronaca, a Leonardo Sciascia, al padre di Placido Rizzotto: testimonianze importanti per capire la Sicilia di allora ma anche quella di oggi. L’opera di Mingozzi e quella di Dolci, uno bolognese e l’altro triestino, uomini del nord che sposavano la causa del Mezzogiorno, sono strumenti per far conoscere le malattie sociali della realtà siciliana, contro l’omertà, la violenza e la paura che non sono solo siciliani, problemi presenti negli anni ’60 e altrettanto vivi ai giorni nostri se ancora oggi non possiamo vedere La terra dell’uomo.
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