La Sicilia importa il 70 per cento di ciò che mangia Gela prova a ripartire da grano duro e pane antico

«In Sicilia importiamo il 70 per cento di ciò che mangiamo, ma ci sono 200mila ettari abbandonati». È partendo da questo dato che Gela punta al rilancio del grano duro, caratteristico della piana nell’epoca pre-Eni. Il primo progetto pilota è già partito da un anno. Se n’è parlato giovedì nella Pinacoteca comunale, all’incontro Il grano duro dei campi geloi e il pane di Gela, promosso dall’associazione culturale Gli amici di Antifemo ed Entimo, presieduta dall’appassionato Francesco Città. «Se riparte Gela, riparte la Sicilia», è l’accattivante slogan scelto da Paolo Guarnaccia, docente al dipartimento di Agricoltura, alimentazione e ambiente dell’Università di Catania. Un’occasione per parlare di agricoltura ecosostenibile, chilometro zero, saperi contadini e intelligenze collettive. 

«In Sicilia importiamo sette miliardi di euro di cibo – ha detto Guarnaccia – che costituisce il 70 per cento di ciò che mangiamo. Ci sono 200mila ettari abbandonati e contemporaneamente 1.600 aziende confiscate che potrebbero diventare campi sperimentali, ad esempio facendo lavorare i migranti che invece vengono rinchiusi nei centri di detenzione o schiavizzati per pochi euro al giorno nelle campagne. Si tratta di tornare ad un modello agricolo autosufficiente, altro che agrobusiness». La riscoperta delle radici non come semplice sguardo nostalgico, ma come investimento per il futuro. 

Tornare al grano antico conviene? Lo ha spiegato l’agronomo Salvatore Susino, che insieme ad altri due agricoltori ha riavviato la coltivazione sperimentale del cosiddetto grano Russello, una varietà principe che ha rappresentato per anni la piana di Gela. «Il progetto pilota va avanti da un anno – ha raccontato Susino -. Abbiamo avuto qualche difficoltà per reperire i semi, visto che erano scomparsi, e siamo dovuti andare fino a Maniaci. La spinta me l’ha dato il nonno 92enne, che negli anni 50 gestiva un pastificio. Posso già dire di aver riscoperto sapori nuovi nella produzione di pane, pizze e dolci». Importante poi il supporto della laureanda di secondo livello Erika D’Aparo, che sulla «rivalutazione delle antiche varietà di frumento duro nella piana di Gela» ha incentrato la tesi. Nel suo lavoro sottolinea le caratteristiche del grano locale – soprattutto della varietà a taglia alta con spighe che possono raggiungere tra il metro mezzo e i due di altezza -, e i vantaggi che ne derivano dalla coltivazione: il controllo delle erbe infestanti che rende superfluo l’uso di fitofarmaci e la produzione di un’elevata quantità di paglia. Le qualità nutritive sono state esaltate dalla biologa e nutrizionista Danila Sciagura: i grani antichi «non hanno subito alterazioni, hanno meno glutine e perciò sono più leggeri e digeribili ed evitano lo sviluppo di intolleranze, sono più buoni e pregiati, sono un buon esempio di filiera corta e di tutela della biodiversità». 

Tutto perfetto dunque? Non proprio. Come tutti i progetti pilota, anche quello sul grano antico ha manifestato qualche difficoltà. Primo fra tutti la scarsa resa rispetto ai grani moderni. «Da un ettaro di terreno si ricavano 36 quintali di frumento, mentre quelli moderni ne realizzano quasi il doppio». Da registrare inoltre la scarsa presenza di operatori del settore. Ma il combattivo Città non demorde. «Col grano duro realizzi un pane di qualità che puoi vendere al doppio del prezzo e che già è molto richiesto – confessa mentre addenta uno dei tanti gustosi esempi che gli studenti dell’istituto alberghiero hanno realizzato e fatto assaggiare al termine dell’incontro -. Intanto stiamo lavorando per realizzare un consorzio di tutela della filiera, dal mulino al confezionamento». Mentre l’amministrazione comunale si è detta pronta a rilasciare la Deco, la denominazione comunale, una sorta di bollino di qualità. 

Andrea Turco

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