E a questo punto, diciamolo immediatamente, il problema non è la serie C, o Lega Pro che dir si voglia. Non per me. Non per tutti coloro che, parlando del Catania, si esprimono costantemente alla prima persona plurale. Coloro che non alternano l’inclusivo avemu ‘n Catania (per i non siculofoni: che bella squadra che abbiamo, ma quanto siamo bravi), che va così di moda nei tempi felici, con il prudente, ironico e un po’ codardo a bellu Catania ch’aviti, stavolta coniugato alla seconda plurale (e cioè, tradotto: la squadra per cui tifate voi fa schifo, sceglietevene un’altra). Frase, questa, che spesso si sente ripetere quando il tempo si mette al brutto. Come è avvenuto in quest’estate torrida e sporca.
Non è la serie C il problema. E come potrebbe esserlo? Ci siamo nati e cresciuti, con la serie C. L’abbiamo masticata col pane. E certamente tra i miei globuli rossi, a un’analisi neanche troppo approfondita, emergerebbero inequivocabili tracce di una serie C leggendaria, risalente almeno al tempo della mia infanzia. E forse anche a tempi più remoti, in cui il ricordo personale si mescola con le storie apprese e raccontate in famiglia.
Petrovic, Simonini, Prestanti, Benincasa, Battilani… e via sgranando la formazione, fino alla coppia del gol, Ciceri e Spagnolo. Chi non ha mai sentito ripetere questi nomi? Chi non si ricorda – sto parlando, si intende, di quelli che i verbi li coniugano alla prima persona – di un attaccante di nome Adelchi Malaman, le cui punizioni dal limite erano il terrore dei portieri? E chi non ha sentito parlare almeno una volta di quel campionato ’74-75, di quella volata infinita tra Catania e Bari, con la promozione conquistata all’ultima giornata, vincendo 3 a 0 sul campo della Turris?
«Attenzione Icardi, scusa Icardi, il Catania ha segnato»… Questa frase, a casa mia, l’ho sentita centinaia di volte. Me la ripeteva mio padre, rievocando quella domenica d’inizio estate in cui, finiti ormai i campionati importanti, la radio passò a raccontare in diretta anche la nostra serie C. E quando la voce emozionata dell’inviato a Torre del Greco – credo fosse Puccio Corona – interruppe quella di Rino Icardi per aprire, con l’annuncio del gol di Ciceri, le danze della nostra festa. Festa indimenticabile. Eppure, era serie C.
Ed era serie C anche quando la formazione letta dagli altoparlanti cominciava con Sorrentino, Labrocca e Castagnini, e finiva con Marco Piga. Quando (era il 1980) il trionfo fu celebrato a Reggio Calabria, e lo Stretto fu per un giorno attraversato da navi passeggeri interamente, festosamente bardate di rosso e d’azzurro. No: il fatto che fosse serie C non toglie proprio nulla alla dolcezza di quel ricordo, alla luce di quei traghetti imbandierati che si specchiava in quella del mare. Le gioie dell’infanzia non sono mai di serie C, del resto; e quel Catania appartiene tutto alla nostra infanzia. Per qualcuno, certo, anche a un tempo ancor più remoto. Ma questo, di sicuro, non rende il ricordo meno bello.
Era serie C anche nel ’92, quando a Palermo Loriano Cipriani, con un tiro di scandalosa potenza, fece vibrare la rete difesa dal portiere del Palermo, che portava il benaugurante nome di Vinti. E ci regalò una delle non frequenti, ma pur sempre dolcissime, vittorie sul campo della Favorita. Quasi prefigurando, oggi possiamo dirlo, quel che sarebbe poi stato il più bel gol della nostra vita, segnato appunto alla Favorita, da Mascara. Stavolta addirittura al volo da centrocampo.
E non era in serie C – C2, addirittura! – anche quella partita del ’99, in cui Roberto Manca, a tempo quasi scaduto, mettendo a frutto un cross perfettamente, inaspettatamente tornito di un terzinaccio come Cicchetti, batté il portiere del Messina Manitta, al Massimino, regalandoci davanti a oltre ventimila persone la certezza di un’altra promozione? E non fu forse in serie C la lotta spasmodica del 2002 contro il Taranto, risolta agli spareggi, con il gol di Michele Fini sul nostro campo e con un palpitante zero a zero nella sfida di ritorno, che ci permisero di affacciarci di nuovo in campionati più degni?
Siamo in serie C, dunque: e allora? Ci siamo con una bella penalizzazione: ma siamo onesti, per quel che ha combinato Pulvirenti non possiamo considerarla eccessiva. Naturalmente, poi, aspettiamo ancora di vedere puniti, in misura proporzionata e con uguale metro, coloro che quelle partite le hanno messe in vendita in quel marcio mercato. Ma questo è un altro discorso. Siamo in serie C, peraltro, con la prospettiva di lottare per la salvezza. Ma chi se ne importa? Di queste tribolazioni ci siamo nutriti per anni, e ricominceremo facilmente a farlo.
Siamo in serie C e già quasi tremila persone si sono abbonate. Non sono poche. Non sono sicuro che tutte le squadre di serie A abbiano staccato molte tessere in più. La società, del resto, ha stabilito prezzi ragionevoli, ha affidato la costruzione dell’organico a uno staff tecnico meno sgangherato che nel recente passato, ha agito sul mercato in modo che, al momento, appare abbastanza oculato. Non vedo molto da rimproverarle, per ora almeno, nei limiti di prevedibilità di una scienza inesattissima come è il calcio.
Gli abbonati sono circa tremila e io sono prontissimo ad aggiungermi a loro. A una sola condizione: che se ne vada via Pulvirenti. Che non si debba mai più avere a che fare con l’uomo che, dopo aver costruito la serie A, ci ha svenduto ai Cosentino e ai Delli Carri, ha accostato il Catania alla Gea di Moggi, ci ha costretti a sedere controvoglia a quel banchetto dei furbi da cui eravamo sempre, e con vanto, rimasti fuori, e dal quale peraltro siamo usciti intossicati e derisi. Mi abbono, purché se ne vada l’uomo che ci ha strappato quel pezzo d’infanzia che tornava a vivere dentro di noi ogni volta che, sul campo, vedevamo agitarsi le maglie con i nostri colori. Che ci ha esposti per chissà quanto tempo a esser presi in giro e tacciati di disonestà – perché certo lo rinfacceranno a noi, mica a lui – dai tifosi di tutta Italia. Compresi gli juventini, che fino a ieri era così bello poter sfottere.
Mi abbonerei dieci volte, se solo Pulvirenti andasse via. Ma non mi sento di farlo senza questa certezza. Perché io sono tra quanti parlano del Catania alla prima persona plurale. E non voglio più che, in questo noi, sia compreso anche lui.
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