La scienziata Roberta Sinatra da Catania a Copenaghen «Alle donne non manca la bravura, ma le opportunità»

Sei nazioni in dieci anni. Basterebbe questo a definire come fuori dall’ordinario la vita di Roberta Sinatra, 37 anni, scienziata catanese oggi docente associata all’università di Copenaghen, in Danimarca. Ma la vera straordinarietà sta nei risultati che l’ex studentessa della Scuola superiore di Catania ha raggiunto nel mondo, per di più da donna. Particolare che piacerebbe non dover sottolineare, ma che purtroppo rimane ancora uno svantaggio competitivo nella comunità scientifica. La stessa che pochi giorni fa ha celebrato la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, tema a cui Sinatra ha anche dedicato uno studio. La raggiungiamo al telefono di sabato mattina, appuntamento che lei stessa propone premurandosi di capire se sia inopportuno. «Perché in Danimarca, dove vivo adesso, lavorare durante il fine settimana è un sacrilegio. In America, dov’ero fino a qualche anno fa, era invece un must. Personalmente cerco di fare la media».

Ha già citato gli estremi del suo lungo viaggio di lavoro all’estero. Partito però dal dipartimento di Fisica dell’università di Catania e dalla Scuola superiore. Cos’è successo dopo la laurea?
«In realtà, ho cominciato a fare ricerca sempre a Catania ma, considerati i rapporti internazionali del mio professore Vito Latora, metà dottorato l’ho trascorso in giro per l’Europa: a Londra, a Vienna, a Saragozza. Poi ho vinto una generosa borsa di studio e sono volata negli Stati Uniti, a Boston, al Network Science Institute, un istituto prestigioso per chi, come me, si occupa di reti complesse. Sono stata lì per quattro anni, poi ho colto l’opportunità di tornare in Europa con un’università americana in Ungheria, a Budapest. Mi sono fermata poco meno di due anni, la situazione politica non rendeva facile la vita di una straniera. E intanto è nata mia figlia, così ho deciso di trasferirmi in Danimarca, dove ho una posizione permanente all’università di Copenaghen e gestisco un piccolo gruppo di ricerca. Chiedo scusa, forse è un noioso elenco di luoghi…».

Credo invece che renda l’idea. Adesso cosa insegna?
«Lavoro al dipartimento di Computer science, qualcosa di simile ma non proprio uguale alla nostra Informatica. Il mio settore è la Scienza dei dati e delle reti complesse, mentre come specifico ambito di ricerca mi occupo di Social data science: in sostanza, analizziamo una grandissima mole di dati, qualcosa come 500mila, un milione di profili, per capire e prevedere dei fenomeni sociali. Pensiamo per esempio ai fondi da stanziare per la ricerca: come scegliere il progetto con la probabilità di maggiore impatto per la società? Certo, vanno considerate anche la fortuna e il caso, ma molto di questo è prevedibile analizzando dati e mettendoli al servizio delle fasce della popolazione più deboli».

E com’è andata con il suo recente studio sulle differenze di carriera tra uomo e donna?
«Si parla spesso di divario di genere, ma nessuno saprebbe dire con esattezza quant’è, come si evolve, se in Italia è uguale o peggiore rispetto ad altri Paesi. Spesso il dibattito si basa su singoli casi. Consideriamo il pregiudizio secondo cui, semplicemente, le donne sono meno brave nella scienza. Uno dei paragoni che viene considerato è che una scienziata ha il 30 per cento in meno di pubblicazioni rispetto ai colleghi, ma ci sono tanti aspetti da considerare: se lavora da meno tempo nel settore o se ha meno collaboratori a disposizione, non necessariamente è una questione di idee valide. Noi abbiamo paragonato profili con le stesse caratteristiche in termini di longevità di carriera e studi in università dal prestigio simile in 50 Paesi del mondo. Così abbiamo scoperto che le differenze, con varie sfumature, ci sono ovunque. Ma che, in realtà, a parità di condizioni il divario non esiste. Quello che va fatto, insomma, è agire sul contesto».

Nella sua esperienza di ricercatrice – professionale e personale – quand’è che il contesto inizia a diventare ostile per le donne nella scienza? Questo ha pesato nella sua scelta del tema di ricerca?
«Direi che ha pesato per un dieci per cento, perché dentro di noi ci sono sempre delle molle motivazionali dovute al vissuto; ma il restante 90 per cento è stato puramente scientifico, dovuto alla voglia di spiegare di che si tratta davvero. Detto questo, non c’è una sola donna con cui ho parlato, nel mondo scientifico, che neghi l’esistenza di un pregiudizio. Non deve essere per forza eclatante, non necessariamente bisogna sperimentare molestie sessuali per accorgersene, ma lo viviamo ogni giorno. Alle superiori le materie scientifiche hanno una buona rappresentanza femminile, che poi però si assottiglia fino ad arrivare al numero prossimo allo zero delle rettrici universitarie. Basta incontrare sul percorso qualche docente con pregiudizi che ti dà un voto più basso, la tua media ne risente, così il voto di laurea e addio al dottorato. Questo contesto porta a un processo autoselettivo per cui le ragazze, nonostante siano brave, scelgono di non proseguire su questa strada. Poi ci sono quelli che io chiamo cortocircuiti mentali».

La definizione promette bene, di che si tratta?
«Nel momento in cui è una donna a parlare di scienza si pensa che il lavoro sia di qualità inferiore rispetto a quello di un uomo. Non è una mia idea, sono stati fatti esperimenti interessanti negli Usa: tra i curricula presentati alla commissione, ne sono stati inseriti alcuni identici eccetto che per il nome, uno maschile e uno femminile. Ebbene, davanti allo stesso curriculum, le commissioni sceglievano il 30 per cento in più di assumere o conferire una borsa di studio all’uomo piuttosto che alla donna. E con uno stipendio più alto. Lo stesso succede con diverse etnie. Per questo credo che vada fatto uno sforzo attivo per evitare che questi cortocircuiti mentali intervengano nelle decisioni sulle opportunità, per esempio rendendo anonimi i curricula. Altrimenti, come dico sempre, rischiamo di perderci una nuova Marie Curie».

Curioso, quando prima accennava a sua figlia – dopo essermi chiesta come ha fatto a trovarne le energie con tutti questi spostamenti – mi è tornata in mente proprio una frase attribuita alla nota scienziata, sposata con un collega. Alla domanda di un giornalista su come fosse stare vicino a un genio, Curie avrebbe risposto: «Non lo so, chiedetelo a mio marito». Nel suo caso com’è andata?
«Mio marito è anche lui uno scienziato. Io ho sempre sostenuto che i figli si fanno in due e adesso ho capito quanto sia vero. Nostra figlia ha tre anni e, per fortuna, la Danimarca supporta la carriera di chiunque aiutando con la presenza di nidi economici e persino gratuiti per chi guadagna meno, e una sorta di asili domestici sovvenzionati dai Comuni. Chi, come me, insegna può chiedere per esempio di non lavorare dopo le 16 e prima delle 9. C’è rispetto per le donne, gli uomini, il lavoro e le famiglie con aiuti concreti: non è stato un caso decidere di vivere qui».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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