Secondo uno studio dell’Oxford Dictionary, il vocabolo più usato nell’inglese moderno (dunque il vocabolo più usato al mondo) sarebbe time, tempo. Con i suoi subordinati (hour, day e year, ora, giorno e anno) nelle prime posizioni, a confermare l’importanza quasi ossessiva che il tempo ha assunto nel linguaggio ordinario.
Ricerche del genere lasciano ampio spazio alle interpretazioni e anche alle illazioni. Ma un’ipotesi plausibile è che i riferimenti cronologici dilaghino, nei nostri discorsi, in misura direttamente proporzionale all’aumento febbrile degli impegni, della socialità, dell’organizzazione delle giornate, delle settimane, delle vite.
Il tempo, in questo senso, non è più un ritmo naturale, una specie di respiro cosmico che si accompagna al nostro. È la scatola stretta entro la quale tentiamo di stipare, a fatica, quella miriade indefinita di occasioni, di appuntamenti, di spostamenti ai quali affidiamo la rappresentanza di noi stessi. Con una contraddizione sempre più palese, e sempre più inquietante: che il tempo è una quantità data, un contenitore indeformabile, e dunque minaccia – proprio lui – di diventare anacronistico… perché tutto il resto (i desideri, le possibilità, i consumi, l’avere, il viaggiare, il conoscere, la salute, la giovinezza) sembra invece diventato deformabile all’infinito.
Tanto che, prima o poi, presto o tardi, qualcuno comincerà a domandarsi a che cosa serve scaricare duecento ore di musica, o trecento ore di film, quando abbiamo il tempo di ascoltarne e vederne appena la decima parte. E dunque o riescono a venderci, con la merce, anche il tempo necessario a godercela (per esempio un kit comprendente tutto il cinema di Tarkowskij più un sabato pomeriggio di cinquanta ore), oppure dobbiamo pensare che nel tempo sia contenuto anche il segreto della misura e del limite. Un segreto molto minaccioso per i fondamenti della società dei consumi: sono – la misura e il limite – i sovversivi della nostra epoca.
Il tempo ci è dunque stretto, così stretto che alcune impazienze contemporanee minacciano di diventare comiche, anzi lo sono già diventate: di quella comicità isterica che ci raffigura così bene. Vedi la pretesa che le comunicazioni via internet siano assolutamente istantanee, e perfino quei dieci o quindici secondi che ci separano dal collegamento con la rete vengano percepiti come un’intollerabile offesa alla nostra fretta. E fior di campagne pubblicitarie presentano come irrinunciabili, rivoluzionarie, salva-vita, abbreviazioni di un’attesa che già ora è di pochi secondi.
Difatti – a causa di internet – sarà accaduto anche a voi, per esempio, di considerare improvvisamente assurdo il tempo che impiega un ascensore per andare al terzo piano. Perché siamo abituati, schiacciando un bottone, a ottenere immediato ingresso o esito da interi universi virtuali.
È in momenti come quelli che bisogna cominciare a considerarsi malati: quando il breve spazio fisico e mentale che separa un ammezzato da un ultimo piano ci vede tamburellare le dita e sbuffare pensando di stare perdendo del tempo prezioso, di subire un torto. E invece il tempo, fossimo più sani, dovremmo usarlo senza neanche percepirlo, come fanno i bambini quando giocano.
Dovremmo procedergli affiancati, né precederlo né inseguirlo, e smetterla di nominarlo continuamente invano, come certifica lo studio di Oxford che ci descrive come incalliti bestemmiatori del tempo.
(Pubblicato su “La Repubblica” del 3 luglio 2006, col titolo “Tempo, ossessione contemporanea. E’ così che scorre la nostra vita”)
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