La realtà con gli occhi del terrore

“Un libro di difficile comprensione, su cui riflettere e da non riversare interamente su un piano realista. Ho voluto sottolineare quanto sia fragile la mente umana di fronte alla psicosi del male”. In questo modo Antonio Scurati apre la presentazione del suo libro, uscito il 18 marzo 2009, “Il bambino che sognava la fine del mondo”, per l’ultimo appuntamento di “Libri in Cortile” (ciclo di incontri letterari organizzati dal Teatro Stabile di Catania e dall’Assessorato comunale alla Cultura).

A 40 anni, Antonio Scurati,è ancora giovane nel palcoscenico letterario italiano; nato a Napoli, è docente di sociologia della comunicazione presso l’università di Bergamo ed è membro del gruppo di ricerca sui linguaggi della guerra e della violenza; è inoltre ricercatore allo IULM e che collabora con Internazionale e La Stampa.

In questo libro Scurati impiega le sue conoscenze sociologiche e linguistiche per mettere in piedi un romanzo dallo stile perturbante. A intervistare lo scrittore è stato il responsabile della sede RAI di Catania e vicecaporedattore del TGR Sicilia Piero Maenza, che chiede subito allo scrittore di chiarire i significati nascosti del lbro.

“Il libro apparentemente può essere inteso come metafora della nuova era mediatica, rappresentata come un killer. La storia inizia trent’anni prima ma si riversa nella cronaca contemporanea come una vera e propria psicosi. Tutto nasce in una città del nord Italia, Bergamo, con la figura di un bambino, che sogna e sembra quasi desiderare la fine del mondo. Trent’anni dopo, la stessa città viene invasa dalla paura: i bambini di una scuola materna accusano gli adulti di azioni orribili.”

Che significato hanno questi bambini?
Ho inserito una descrizione fisica dei bambini che li rende tutti molto simili. Biondi con gli occhi azzurri. Grandi. Li ho inseriti in due contesti storici totalmente differenti proprio per sottolineare l’eternità di due caratteristiche umane: l’innocenza della fanciullezza e il Male. Il bambino con cui apro il racconto è sonnambulo e sogna questa fine del mondo, questo arrivo del Demonio. Ciò accade solo trent’anni dopo quando il male e la paura conoscono nuovi canali di propagazione e risonanza. Non a caso nella seconda parte del romanzo un professore universitario, che ha paura di diventare padre, viene risucchiato dalla storia ed è, controvoglia, costretto a occuparsi del caso. A scoprire quanto è sottile la linea tra vittima e carnefice, accusato e accusatore.

Che ruolo ha l’informazione nel suo libro e nella società di oggi, secondo lei?
Nel mio libro non si riconosce più cosa è realtà o meno, cosa è vero o è falso. Ho creato una “confusione mediatica”. La narrazione sprofonda nell’attualità, nella cronaca di avvenimenti né veri né falsi, non come se tutto fosse accaduto ora ma come fosse un dramma antico. Perché il male è adesso, ma nello stesso tempo è eterno. I personaggi, come tutti, oggi, sono testimoni impotenti e fragili davanti al propagare dell’infezione mediatica e le loro sono voci fiacche, incapaci di combattere contro la spettacolarizzazione delle informazioni operata dal mezzo televisivo, vero consapevole mezzo di propagazione della paura contemporanea. Nella sua immaturità ed inadeguatezza, il mondo dell’informazione non va ad accertarsi della verità. È sufficiente l’incubo che può suscitare.

Da un punto di vista sociologico cosa succede a questa società contemporanea?
E’ una questione estremamente interessante. Dopo l’esperienza di questo libro credo che ciò che è perdente sia la forza della ragione collettiva, ciò che spinge l’uomo ad essere un’unica cosa con la verità. Nel romanzo tutti perdono. Ciò che si salva è proprio l’infanzia, la parte più misteriosa della vita umana. I nostri incubi, i nostri ricordi, le paure legate alla formazione di una famiglia o al diventare genitori, sono tutti problemi che, da sempre esistiti, oggi cercano un centro. Cercano in fondo, nient’altro che un futuro pieno di speranza.

A scandire l’intervista sono stati gli interventi dell’attore Gian Paolo Poddighe, molto apprezzato dal pubblico, che ha recitato alcuni dei brani più significativi del libro (finalista al Premio Strega 2009).

In definitiva, in un’abile sofisticazione della realtà, Scurati rende romanzo alcune delle storie più agghiaccianti riportate dalla cronaca nera degli ultimi anni. I tema sono scottanti: isteria collettiva, pedofilia e altre fantasie malate. Nel romanzo riconosciamo la figura dello stesso autore: osservatore, narratore e protagonista, attraverso la figura del docente universitario. Tutto ciò fa pensare a un certo egocentrismo dello stesso scrittore che, forse, rischia di compromettere il ritmo narrativo rendendo il libro di difficile lettura e comprensione. Lo stile sostenuto e le componenti filosofico-sociologiche di cui il libro è denso, nonostante tutto,  aiutano a non immergersi mai a fondo nella storia e a leggere vigili. Cercando, fra le mille provocazioni, il senso di un pensiero non banale né immediato.

Daniele Palumbo

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