Lo confessa, non le piace il calcio, ha un’autentica adorazione per il rugby.
Le sue conoscenze del gioco per eccellenza dell’italica popolazione si limitano a quelle acquisite per osmosi dopo anni di convivenza con elementi del genere maschile. Sì, ha un’idea abbastanza ferrata della regola del fuorigioco (cosa che a quanto pare è di base per qualsiasi conversazione avvenga la domenica sera/lunedì mattina), conosce la differenza tra centrocampista e difensore ed è tutto – più o meno – qui.
Confessa di essere andata allo stadio solo una volta in vita sua (e non per una partita, ovviamente). La sua ignoranza del sistema-stadio è tale da farle esclamare, con cipiglio convinto quanto fondamentalmente errato,«sei anche tu in tribuna B? Allora siamo vicini». Poi qualcuno le spiega che non è esattamente così, evitandole la meschina figura di vedere le sue già esigue certezze crollare tra un migliaio di estranei.
Quindi, dopo anni passati a far finta che le uniche partite di calcio degne di essere guardate in tv sono quelle della nazionale – ma mica tutte – e dopo innumerevoli sbuffi innervositi non appena in una redazione di un magazine a caso si tocca l’argomento, decide di andare a vedere una partita. Ma non una qualunque.
La partita.
Catania – Palermo. Per una persona che ha rischiato seriamente il linciaggio per aver confuso gli attributi “rosso-blu” e “rosso-azzurri” (sui colori sociali non si scherza, chiedete al coordinatore di redazione Gianfranco Faillaci) la decisione è stata accolta da sguardi increduli e timori di una prossima fine del mondo. Con un sorriso sprezzante ha tranquillizzato tutti («San Mirco Bergamasco, aiutami tu» mormora nei pressi dello stadio) e affronta l’avventura.
Il primo passo, dopo aver acquistato i biglietti, è raccapezzarsi in quella che si ostina a chiamare la “striscia di Gaza” di Catania: la zona Cibali.
Lo slalom tra le transenne e i tornelli presidiati da autentici evidenziatori ambulanti è costellato da una sfilata di magliette, sciarpe e bandiere con due colori dominanti: rosso e azzurro (ha imparato la lezione). Osserva la mammina con un semplice foulard, il quarantenne a torso nudo con la bandiera annodata sulla testa in una imitazione raccapricciante del pirata Sparrow, il bimbo iperattivo che inquieta centinaia di persone con il suo pallone di cuoio sopravvissuto alla seconda guerra mondiale o giù di lì.
Una volta arrivata incolume nel posto giusto, il suo sguardo un po’ sconvolto fa palesare quanto nulle siano le sue conoscenze di questo mondo. I suoi vicini di posto all’inizio mantengono il classico riserbo per poi lasciare le convenzioni sociali da qualche parte tra gli spalti e iniziare a chiacchierare liberamente, come se ci si conoscesse da anni.
«Signorina, guardi che appena inizia noi non ci tratteniamo; le dispiace se sente qualche brutta parola?» l’avverte un giovane seduto qualche posto più in là. Ottimo; corso accelerato di vulgaris eloquentia. Male non potrà fare. Quando le squadre entrano in campo lo stadio sembra venir giù dai fischi (per i palermitani) e dagli applausi. La speaker che annuncia i giocatori – mi dicono – rischia ogni settimana l’infarto, tanta è la foga con la quale li annuncia.
Qualche minuto dopo il fischio d’inizio ventimila persone si alzano in piedi infuriati: Carrozzieri fa un brutto fallo su Morimoto e i miei vicini di posto urlano «tonnatinni all’officina» seguito da altri epiteti più o meno ripetibili.
La partita, durante tutto il primo tempo, delude un po’ i tifosi catanesi. Non si aspettava che proprio loro fossero i critici più severi della squadra; sono implacabili nei commenti quando un passaggio finisce tra i piedi dei palermitani. Quando – poco prima dell’intervallo – viene espulso un giocatore rosanero, tutto lo stadio esplode in cori e urla di giubilo. Forse le cose si metteranno bene.
«Vede signurina, noi veniamo allo stadio per sfogarci di tutto quello che ci succede nella settimana. Dal lunedì al sabato ci carichiamo; poi veniamo qua, facciamo buddellu e stiamo meglio!». È il signor Salvo (lo chiameremo così) a spiegarle la funzione terapeutica del tifo; è un uomo di mezza età, abbastanza ben vestito, con una voce roca che sembra nata per urlare “cunnuto!” a ogni tocco di palla avversario. Salvo ha una serie di piccoli riti: non si siede mai nel suo posto ma sta scomodamente aggrappato alla ringhiera, non si unisce mai ai cori che provengono dalle curve e quando “sente” un risultato… è quello; «sono un mavaro» (una sorta di iettatore, per i non bilingue) spiega.
Qualche minuto dopo l’inizio del secondo tempo, fischi e urla accolgono l’ingresso in campo di un sostituto del Palermo. All’ingenua domanda sul motivo di tale trattamento, le spiegano che si tratta di Giovanni Tedesco, fratello del catanese Giacomo. E quest’ultimo lo accoglie scaraventandolo a terra qualche minuto dopo. Caino docet?
Se prima pensava che i decibel massimi udibili all’Angelo Massimino fossero stati raggiunti, il primo gol dei rosso-azzurri la fa ricredere. Salvo saltella e si aggrappa al figlio accanto a lui, mentre la nostra sbigottita neo-tifosa viene abbracciata da uno sconosciuto urlante. Qualche secondo dopo e l’intera tifoseria si agita al grido “chi non salta rosanero è!”, mentre ad ogni rinvio del portiere Amelia la curva si scatena in uno sfottò che presto si estende all’intero stadio.
Al fallo in area che provoca il rigore, poi, il delirio è completo e ci si ritrova nuovamente coinvolti in un abbraccio collettivo che stavolta trova la spettatrice più preparata ma non per questo meno sconvolta.
Un paio di minuti prima del termine, da qualche parte perso nell’oceano di catanesità doc si sente una voce cantare. «O sole mio!» urla un vecchietto con un cappello a sonagli che lo fa somigliare a un giullare civitiota. Alla fine della performance l’applauso – con standing ovation – è d’obbligo.
Il tempo di uscire nuovamente districandosi tra il mare di concittadini urlanti e telefonate, messaggi, segnali di fumo l’avvertono: «porti bene, d’ora in poi seguirai tutte le partite in casa del Catania». Santi Mirco Bergamasco, Diego Dominguez e Andrea Lo Cicero, pregate per lei.
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