La prima volta dentro i beni confiscati al boss Zuccaro Sui muri scritte minatorie. Fava: «Darli alla collettività»

Nella cassetta della posta davanti al grande cancello al civico 33 di via Filippo Corridoni a Gravina di Catania è stata imbucata una raccomandata. Il destinatario è Filippo Zuccaro, meglio conosciuto nel mondo neomelodico con il nome d’arte di Andrea Zeta. L’uomo è anche il figlio del sanguinario boss ergastolano Maurizio Zuccaro, a cui nel 2013 l’enorme villa con piscina, insieme al resto del quartier generale del clan, è stata confiscata in via definitiva. Adesso, il compound che fu degli Zuccaro è tra gli immobili messi a bando dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati

Nel citofono, da cui adesso penzolano i fili elettrici, ci sono ancora le scritte Zuccaro e Acciarito G., cioè Graziella, la moglie di Maurizio. «Fino a una settimana fa, il citofono era al suo posto», dice a MeridioNews Matteo Iannitti de I Siciliani giovani che ieri mattina ha organizzato, insieme all’Arci Sicilia, una conferenza stampa per denunciare la malagestione dei beni e le anomalie del bando. L’incontro si sarebbe dovuto tenere davanti al cancello, salvo poi scoprire che era possibile entrare. «Mai avremmo pensato di trovarlo aperto visto che ci risulta che, fino a non molto tempo fa, quelle strutture erano occupate. Alcune proprio da membri della famiglia». Nelle villette e nelle palazzine, che insieme formano quasi un quartiere per anni simbolo tangibile del potere del gruppo criminale, non si era mai riusciti a entrare. «Siamo qui per difendere una legge straordinaria che è l’emblema della lotta alla mafia – dice Dario Pruiti di Arci Sicilia facendo riferimento alla legge Rognoni-La Torre – Se non funziona, perdiamo tutti».

Fino a ieri mattina non era stato possibile effettuare nemmeno il sopralluogo che è requisito preliminare per il primo bando aperto alle associazioni. «L’amministratore giudiziario – spiegano dalle associazioni – ci aveva detto che saremmo dovuti venire scortati dalle forze dell’ordine perché i locali erano ancora occupati abusivamente». Varcato il cancello si respira un’aria di degrado e abbandono. Nella grande piscina con le mattonelle azzurre c’è una pozzanghera e diversi rami secchi. Molte stanze sono a soqquadro: c’è una giacchetta appesa ad asciugare a una finestra, un guantone del forno sul lavello della cucina, pane e pasta (ancora freschi) poggiati su una poltrona, su una sedia un pacco di sale mezzo pieno. E proprio accanto l‘ordinanza di custodia cautelare del tribunale di Catania dell’inchiesta Zeta (l’operazione che, a marzo dell’anno scorso, portò il cantante neomelodico dietro le sbarre, con l’accusa di fare gli interessi del padre ergastolano). 

Attaccata a una porta di metallo c’è una grande Z nera disegnata, mentre su un tavolo il dvd de Il capo dei capi. Alle pareti sono rimasti appesi i quadri, sui mobili diversi quadretti di padre Pio e vecchie coppe vinte ai tornei di tamburello. Entrando in uno stanzone ci si imbatte in alcune scritte intimidatorie alle pareti e sugli specchi: «Sappiamo chi siete», «Vi stacco la testa». Chi siano i destinatari dei messaggi non è dato saperlo. Non tutti gli spazi sono accessibili. Alcune arre sono ancora chiuse da lucchetti su cui sono puntate telecamere di sorveglianza. «Ognuna di queste mattonelle è il frutto dello spaccio di droga, delle estorsioni, degli omicidi – sottolinea Iannitti – Il fatto che siano spaccate, invece, è da imputare alle istituzioni che non hanno saputo tutelare questi beni nell’attesa che vengano restituiti alla collettività». 

Per questo passaggio ci vorrà ancora tempo. L’agenzia ha prorogato i termini del bando al 15 dicembre, dopo la sollecitazione arrivata dalla commissione antimafia siciliana. «Molti sono in condizioni fatiscenti con edifici abusivi o inutilizzabili – ha detto il presidente della commissione Claudio Fava – alcuni sono sconosciuti anche ai coadiutori giudiziari che ne hanno la responsabilità, altri sono occupati abusivamente da familiari dei boss mafiosi a cui sono stati confiscati. Speriamo – ha concluso – che questi non siano più luoghi di macerie ma di ricchezza da restituire alla collettività». 

Marta Silvestre

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