La prima volta al Cara Un pugno nello stomaco

La strada che porta al Cara di Mineo è lunga e triste, un percorso con le ragazze come carne da macello in vendita ai bordi della strada.

La prima volta era una caldissima mattina di luglio. Un centinaio di metri prima la segnaletica indica Residence degli aranci, e da fuori a vedersi è pure bello. Il prato perfettamente falciato, ancora bagnato dall’acqua dell’efficientissimo sistema di annaffiamento, un parco giochi per i bimbi, le case a schiera tutte uguali. Poi fai caso al fatto che è tutto recintato da una spessa rete metallica, che non ci sono bambini che giocano, ti si stringe lo stomaco dall’ansia, vedi una macchina, dei militari armati in mimetica lì ad aspettarti e pensi di essere un macabro visitatore di una campo di concentramento.

Una volta arrivata, la polizia ti chiede i documenti. Se non sei nella lista degli interpreti convocati per quel giorno, con comunicazione della prefettura, non entri.
Superata la barriera armata, pensi di aver già avuto il tuo pugno nello stomaco, invece il pugno nello stomaco l’ho avuto dopo mesi, quando ho cominciato a capire e digerire quello che ho visto e le storie che ho sentito.

Il Cara di Mineo era un residence dove vivevano i nostri vecchi amici della base americana. Ci sono persino i cartelli in inglese che intimano di rallentare per il passaggio dei minibus che portano a scuola i bambini. Poi i nostri magnanimi amici ce l’hanno lasciato in regalo, e si è ben pensato di trasformarlo in un piccolo Auscwitz dei nostri tempi. Il primo giorno ho pensato quanto siano ridicoli gli americani: venire in Sicilia dall’altra parte del mondo e costruirci dentro una piccola America. Il Cara è esattamente uguale ai quartieri che si vedono nei film americani.

È suddiviso in vialetti che si incrociano ogni 50 metri. Ogni casa ha un piccolo giardino davanti e uno sul retro, ed è costruita su due livelli, dublex. C’è la casetta dell’Ufficio Immigrazione, quella della polizia, della Croce rossa, dell’infermeria, delle commissioni. E poi ci sono le case dei richiedenti, ognuna con un numero identificativo di quattro cifre.
Davanti alle case dove ci sono le commissioni, gli ospiti, cosi vengono chiamati i richiedenti, aspettano infinite ore in piedi, sotto il sole, oppure stanno sdraiati sui prati, perennemente in ciabatte.

Vedere le persone sempre in ciabatte mi incuriosiva sin da piccola in Iran. «Perchè escono in ciabatte?» mi chiedevo. Mi dava una sensazione strana che non so spiegare nemmeno adesso.

 

[Foto di Antonello Mangano]

Sanaz Alishahi

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