La nuova cupola e i palermitani che la mafia la cercano «È venuto lui da me per avvisarmi che apriva un’attività»

Il blitz che martedì scorso ha letteralmente decapitato i quattro mandamenti più potenti di Palermo e della sua provincia, decimandone le famiglie di riferimento, si è avvalso della preziosa collaborazione di alcuni pentiti. Ma, novità assoluta, anche della collaborazione spontanea di alcuni commercianti. Tanto da far parlare gli inquirenti di «muro d’omertà abbattuto, sbriciolato». Non più, quindi, gente precedentemente individuata dagli investigatori e poi, una volta convocata in caserma, arresa di fronte alle evidenze raccolte. Questa volta in tanti hanno spontaneamente deciso di denunciare, prima ancora che qualcuno li interpellasse. Uno fra tutti è Giuseppe Piraino, che in questi giorni ha fatto parlare di sé per la sua intraprendenza nel filmare il suo estorsore durante le richieste di pizzo. Ma tra le pieghe dell’operazione si nascondono, in realtà, anche altri palermitani, che hanno fatto scelte ben diverse. Sono quelli che la mafia anziché denunciarla l’hanno cercata. Come l’elettricista che a gennaio si rivolge a Marco La Rosa, accusato di essere affiliato alla famiglia mafiosa di corso Calatafimi, per chiedergli di recuperare per lui il credito vantato per alcuni lavori fatti nell’appartamento e nel negozio di un 50enne, ritenuto vicino a diversi affiliati del mandamento di Pagliarelli.

«Te la posso chiedere una gentilezza? – dice La Rosa, intercettato, a un altro presunto affiliato riferendo la richiesta ricevuta dall’elettricista – Ho un problema con un ragazzo, gli ho fatto un lavoro di mille e cento euro, me ne ha dati solo cinquecento, è da dicembre che ci combatto per strappargli sti picciuli». «Tra una settimana, tra due, tra un mese», avrebbe continuato a rispondere il debitore all’elettricista. Fino a esaurire la sua pazienza. «Mi pallìa, minchiate contro minchiate», avrebbe raccontato al colmo della disperazione a La Rosa. Prima di rivolgersi a lui, però, si affida a un altro amico, titolare di un’officina in via Paruta. Che riesce a fare recuperare all’elettricista solo parte dell’importo atteso, quegli unici 500 euro che è riuscito a mettersi in tasca. All’appello ne mancano altri seicento. Che se La Rosa e i suoi riusciranno a fargli ottenere, lui elargirà come «regalo ai carcerati», in segno di gratitudine e «obbligazione morale». Un’imposizione che in realtà arriverebbe direttamente dal debitore amico dei boss che ancora non si decide a saldare il conto, ma che l’elettricista è disposto ad accollarsi, pur di vedersi consegnati i soldi. Con la libertà però di decidere in autonomia a chi destinare la somma: «Mi accontento che li prendo e glieli do, non li voglio questi picciuli ma lui li deve uscire», riporta sempre La Rosa.

Ma nelle carte dell’inchiesta non c’è solo il palermitano di turno che la mafia la cerca per rivalersi su qualcun altro, per aggiustare un torto subito, per ricevere una qualche protezione. C’è anche chi alla mafia si rivolge in segno di rispetto e riverenza. E se a farlo è un imprenditore che solo pochi anni fa è passato agli onori delle cronache per aver denunciato pizzo ed estorsori, c’è da rimanere perplessi sui quei pochi passi avanti che in fatto di omertà si credeva di aver compiuto fino ad oggi. «Mi è venuto a chiamare lui – dice intercettato Filippo Annatelli, presunto reggente della famiglia di corso Calatafimi -. Mi fa “Filì, è giusto che te lo faccio sapere, sto aprendo una gelateria”», indicandogli poi l’indirizzo preciso. L’imprenditore sembrerebbe essersi sentito in dovere di avvisare il presunto boss, in qualità proprio del ruolo di cui adesso dovrà rispondere ai magistrati. Non a caso Annatelli racconta questo episodio a margine di alcune lamentele su molti commercianti di corso Calatafimi, che «troppo spesso oramai aprivano nuovi negozi omettendo del tutto di interloquire con loro, cioè con i referenti mafiosi di zona», riconoscendo al contrario in questo imprenditore e nella sua accortezza «un esempio ideale di condotta», per citare le carte.

A sentire i discorsi del presunto boss sembra che, a prescindere dal pagamento di eventuali somme di denaro, l’elemento fondamentale sia in certi casi quello di mantenere saldo il controllo sul territorio, «facendo in modo che da parte dei commercianti e degli imprenditori venga comunque e in ogni caso riconosciuta l’autorità della famiglia mafiosa locale»: «Non è che uno ci vuole domandare cose, ma magari…Fare capire che c’è sempre il rispetto per i cristiani, ecco». La mafia, insomma, sembrerebbe apprezzare la premura avuta dall’imprenditore. E l’apprezzamento è anche più gradito se viene da qualcuno che gli affiliati conoscono. Perché dovesse invece trattarsi di un estraneo, che di loro non ha mai saputo nulla, si tornerebbe alle solite modalità, con la visita di raccomandazione per mettersi a posto. Come spiega bene, anche lui intercettato, Gioacchino Badagliacca, accusato di essere affiliato alla famiglia mafiosa di Rocca-Mezzo Monreale: «Un estraneo magari si apre una cosa e magari commette la leggerezza di non dirti niente, uno glielo dice e lo rimprovera».

Silvia Buffa

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