Giò per gli amici. Joe dei La Crus per i quarantenni e dintorni. Mauro Ermanno Giovanardi è uno dei quei personaggi che la musica italiana l’ha vissuta da protagonista, partendo dalla nicchia dei The Carnival Of Fools (a cavallo tra gli ’80 e i ’90), fino ai grandi palchi con i La Crus, per poi approdare al Festival di Sanremo durante la sua fase solista (seppur presentatosi in quell’occasione come La Crus), e continua a viverla non solo in veste di cantautore, bensì di direttore artistico di un festival che, a settembre scorso, è riuscito a sottrarsi a quella lunga e scoraggiante lista di eventi annullati.
Nonostante i limiti imposti per l’organizzazione di festival e grandi eventi, sei comunque riuscito a portare avanti La Mia Generazione Festival. Quanto è stato difficile?
«Difficilissimo. Ho pensato più volte di mollare il colpo. La prima stesura del programma era pronta a metà gennaio. A marzo abbiamo dovuto pensare a un piano b, per poi ridimensionarlo per via della riduzione di budget e, a giugno, abbiamo provato a spostarlo al porto antico di Ancona, per una capienza maggiore di circa mille posti, attendendo invano per settimane e tenendo in stand-by una serie di artisti. Abbiamo infine deciso di farlo, anche se di soli due giorni, alternando concerti e talk, con ospiti come: Lucio Corsi, Cristiano Godano, Vinicio Capossela (con un concerto studiato appositamente per il festival), Motta, Brunori Sas, Vasco Brondi, Ghemon. Siamo riusciti a farlo in teatro, per un pubblico di 400 persone, con sold out in 2 minuti e mezzo, e in streaming televisivo, con quasi 50mila visualizzazioni solo nella seconda serata. Per quello che potevamo fare è andata benissimo, ma vedere Capossela o Brunori potersi esibire per sole 400 persone… un po’ ti rode. Come si dice a Milano “ti unchia la m*****a” (ndr: già, avete capito bene, Giò ha una certa dimestichezza con il siciliano)».
Credi che una pausa forzata così lunga per la musica dal vivo farà da incentivo a una maggiore partecipazione di pubblico quando si potrà riprendere? O temi che le persone si disabituino?
«Questo è un grande dilemma che ci stiamo ponendo tutti. Dipende da quanto durerà e dalla paura che avremo ancora dentro. Temo che per il nostro settore la normalità arriverà nella primavera 2022. E dipende da quanto avremo interiorizzato il fatto di vedere i concerti in streaming. Speriamo che non diventi come vedersi i film a casa piuttosto che andare al cinema. Ma un concerto, anche della stessa band, puoi vederlo cento volte e non sarà mai lo stesso. Voglio credere che ci sarà voglia di vita o si farà la fine dei topi. Spero che quella forza vitale che abbiamo dentro ci porti ad aver voglia di fare cose belle, che nutrono l’anima, perché in questo momento la paura e le costrizioni ci bloccano la bellezza».
Con i La Crus, negli Anni ’90, facevate parte di ciò che allora era definito Nuovo rock italiano, insieme ai primi Afterhours, Marlene Kuntz, Subsonica, CSI, 99 Posse. Erano anni caratterizzati da una grande varietà di contaminazioni sonore, di rivalsa per le etichette indipendenti e di una forte volontà di far valere la propria identità. Oggi si parla di scena Indie, ma tutto appare un po’ più omogeneo e suona quasi in contraddizione con quegli anni. Quali sono, secondo te, le differenze più evidenti?
«Ce ne sono tante. Forse la più eclatante è “da dove arrivi”. Tutta quella scena era molto eterogenea, ognuna di quelle band era differente dalle altre, ma ci legava una cultura vicina alle produzioni indipendenti e ai centri sociali piuttosto che ai network e alle major, e avevamo ascolti meno pop. Il primo disco dei La Crus, ad esempio, è pieno di campionamenti dei Neubaten e di musica industrial. Inoltre, la musica, per noi, assomigliava a un’uniforme, una divisa: io ascolto e faccio questa musica per differenziarmi da te. Successivamente, le major hanno visto un potenziale pubblico, che magari ascoltava Nick Cave o i Nirvana, ma che era orfano di quel tipo di musica cantata in italiano. Si è iniziato ad andare più nelle radio, le major iniziavano a chiedere il pezzo radiofonico, e nel giro di 5-6 anni quella potenza lì si è un po’ smussata, fino ad arrivare a una certa omologazione musicale voluta in buona parte dai discografici. Esce il disco dei Thegiornalisti che funziona e allora ecco che bisogna registrare e arrangiare il disco come quello dei Thegiornalisti. Prima c’era un’urgenza di dire determinate cose, a prescindere da quanto si sarebbe venduto. Oggi i social hanno cambiato notevolmente il modello. A volte mi avvilisce il fatto che un post o una foto possa essere più importante dello scrivere una canzone».
C’è una giovane promessa sulla quale scommetteresti?
«Mi ha folgorato tantissimo il concerto di Lucio Corsi, con una band giovanissima. Un approccio cantautorale così interessante che ad ogni verso aspetti di ascoltare cosa dice quello dopo. Un immaginario letterario tutto suo e un background musicale molto glam. Un’altra che mi piace molto è Margherita Vicario, distante dai miei ascolti ma con un carisma interessante».
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