La Migration, lo sportello per i migranti Lgbti «Qui certi temi sono ancora un grande tabù»

«Perché mi metto in viaggio? Perché se resto dove sto potrei morire, perché il mio orientamento sessuale non è accettato dove vivo». È questo il motivo che ha spinto Prince a lasciare il suo Camerun. Perché lui è musulmano e nella sua terra è consuetudine che «a un certo punto se sei un uomo inizi a manifestare interesse per le donne. Ma nel mio caso questo non succedeva, i miei hanno iniziato a farsi qualche domanda, tutti hanno cominciato a pensare che fossi uno stregone». Non è facile per lui condividere questi aspetti così intimi e privati della sua personale storia. E del motivo, soprattutto, che l’ha portato in Italia, fino a Palermo. Ne racconta solo alcuni stralci davanti agli studenti dell’università in occasione di una giornata dedicata ai diritti e organizzata da Arcigay. «Quando sono arrivato in Italia sono stato molto discriminato per il mio orientamento sessuale, ma qui ho avuto la fortuna di incontrare persone che oggi posso solo ringraziare – racconta -. Ho viaggiato molto, sono stato a Torino, a Roma, poi finalmente la Sicilia, ma devo dire che l’isola rispetto a questo tema è ancora un po’ chiusa».

«Sono partito dal Camerun perché ero in pericolo, e quando sono arrivato qui avevo paura di dire alle persone che ero omosessuale». Riesce finalmente ad aprirsi solo dopo aver conosciuto lo sportello La Migration, un servizio nato nel 2011 all’interno di Arcigay Palermo, in collaborazione con l’associazione DiaRiA e la Tavola Valdese Italiana, che prende la mosse dal vissuto di alcune volontarie attive nell’associazione e migranti a loro volta. «È come se avessi ricevuto una seconda opportunità. Che mi permette oggi di raccontare la mia esperienza, e lo faccio anche perché a dispetto dell’aria che si respira in altri posti in cui sono stato, dal Belgio alla Francia, qui in Sicilia questo è un tema decisamente ancora tabù». Un tabù che in Camerun, però, è addirittura qualcosa di inconcepibile, di irreale, di sbagliato. «Ho due figli e non certo perché sono eterosessuale, ma per via del contesto in cui sono cresciuto – racconta Prince -. Quando hanno scoperto la mia omosessualità nessuno poteva capire come io uomo potessi volere stare con un altro uomo».

«Oggi sono in contatto con il Camerun, cerco di parlare del tema, di spiegare quanto altrove questo sia normale, vorrei fondare un’associazione che supporti la comunità Lgbti anche nel mio paese. So che a Palermo ci sono tanti africani omosessuali che ancora non si dichiarano perché non si sentono pronti per farlo, insieme allo sportello voglio dare loro tutto il supporto necessario – si ripromette -. In Sicilia c’è tutta una sorta di protocollo prima di poter riuscire a stare con un’altra persona». È per sradicarlo del tutto, questo tabù, che esistono realtà come La Migration, che adesso ha realizzato un manuale dedicato al tema e al delicato compito di cui si fa carico da otto anni. «All’inizio è stato tutto complicato perché, come straniera, venivo sempre percepita come strana, diversa e mai presa sul serio, sia per un background differente sia perché si tende a mettere un’etichetta sulle persone prima di conoscerle basandosi spesso su pregiudizi e stereotipi», racconta una delle fondatrici nel report, Ana Maria Vasile, originaria della Romania. Partendo dalle sensazioni provate sulla propria pelle, ci si è chiesti come si sarebbero potuti sentire altri migranti, anche di diversa nazionalità, a subire le stesse discriminazioni. È da questo input che è partito un certosino lavoro di informazione e ricerca per realizzare lo sportello.

Prima di tutto è stata creata una mappa del territorio per capire i luoghi nevralgici in cui le comunità migranti erano più presenti a Palermo. Poi sono stati organizzati degli incontri con i rappresentanti dei servizi territoriali e con diversi mediatori culturali. Sono stati analizzati i bisogni dei migranti Lgbti ed è stata costituita una squadra di lavoro composta da operatrici, volontari, un avvocato, uno psicologo e mediatori culturali di diverse nazionalità. Infine, si è passati alla formazione dell’equipe, per affinare le competenze, definire i ruoli e allargare il ventaglio di servizi da offrire. Gli spazi offerti dallo sportello sono quello della consulenza psicologica, della consulenza legale per richiedenti asilo, uno dedicato alle parole e agli incontri, un altro invece per eventi culturali, convegni, campagne di sensibilizzazione e corsi di formazione. «Fino ad ora – si legge nel report – la maggioranza dei nostri utenti sono venuti per esigenze legali. Tuttavia, in alcuni casi, ci siamo attivati per offrire un supporto psicologico o sanitario. Infatti, provenendo da culture in cui la figura dello psicologo non è molto conosciuta, i beneficiari in generale non capiscono la necessità di tipologia di accompagnamento, apprezzata solo in seguito. Sia il supporto sanitario che quello legale colmano carenze di un percorso individualizzato che non sempre è garantito dal centro di accoglienza».

«Ogni persona è accolta in un modo diverso, ci sono migranti che parlano italiano, altri che non sono mai venuti a Palermo, e quindi non conoscono la città. Il legame che cerco di creare si basa sul fatto che anch’io sono straniera: scambiando due parole in generale sul clima o il calcio riesco a creare dei ponti che permetteranno poi di poter parlare di tematiche più dolorose e intime», racconta sul report anche Rafaela Pascoal. Sono tante le emozioni che questi confronti suscitano anche nei volontari e nei mediatori stessi dello sportello, dall’empatia all’impotenza. Migranti, in un certo senso, più vulnerabili di altri, che scappano dal paese di origine per non essere perseguitati a causa del proprio orientamento sessuale, ma che rischiano di subire la stessa identica persecuzione e un trattamento violento anche dai connazionali con cui si sono dati alla fuga verso l’Europa.

Proprio come V.: «Ci ha contattato disperato perché aveva subito violenza da parte di altri ospiti del Centro di accoglienza nel quale era stato collocato. Dopo l’aggressione, i responsabili della struttura lo hanno collocato in una stanza da solo. Invece di provare a risolvere la situazione di conflitto è stato semplicemente isolato – scrive ancora Pascoal -.Lui viveva con la paura di essere nuovamente aggredito da altri ragazzi e con l’ansia che qualcuno di notte sarebbe entrato nella sua stanza per ucciderlo. Per questo abbiamo richiesto il trasferimento in un altro centro più vicino a noi». Una vulnerabilità, la loro, che però diventa anche resilienza. Dal momento che l’inevitabile rifiuto del paese d’origine genera in loro una voglia maggiore e una necessità forte di integrarsi nel paese di destinazione. 

Silvia Buffa

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