Io non lo so che dovrei dire, adesso.
Forse dovrei solo ringraziare la mia buona sorte, che ogni tanto mi accompagna. Forse dovrei congratularmi con Agata, che penso una certa soddisfazione se la sia presa pure lei.
Forse dovrei spiegarvi quello che è successo.
Io della mia vita voglio farne un romanzo, non nel senso che mi piacerebbe scrivere la mia autobiografia, bensì nel senso che vorrei il mio nome su una copertina, almeno una volta, una soltanto.
Non so se ho il talento che serve, non so se ho la forza d’animo per accettare le critiche che, sicuramente, riceverei, non so se ho il coraggio per perseguire un sogno grande quanto una casa, o meglio, grande quanto una libreria immensa.
So che quando mi capita qualcosa, scrivo. Scrivo, perché metabolizzo, per il piacere sottile di raccontare, per la passione indefinita che cresce ogni volta che una parola segue un’altra parola, e poi un’altra e ancora una.
Avevo una storia, tempo fa. Una storia in cui avevo riposto tanto amore, e non solo quello. C’era un Parolaio che era l’uomo di cui parla Eugenio Finardi in una bellissima canzone. Un uomo dolce e duro nell’amore, che sa come prendere e poi dare, che fa sentire la sua donna intelligente, bella, porca ed elegante, come se fosse nuda tra la gente, oppure santa come un diamante. Un uomo che ricordi alla sua donna che sa amare, un uomo che sappia rassicurare, che la faccia osare di sognarsi come non è mai riuscita ad immaginarsi.
Avevo questa storia e la stringevo tra le dita, finché m’è scivolata.
Dopo, ho scritto. Ho raccontato. Pagine e pagine di emozioni senza filtro, di descrizioni di quell’uomo che odora di fumo denso, di tabacco e vino.
Ne è uscito qualcosa. Dieci pagine di verità, di rabbia e di dolore.
Spremute d’occhi, lacrime da bere, pianto di cui ubriacarsi.
Non avevo più niente, eccetto questo. E questo ho dato, con tutta me.
Ho scritto. E ho lasciato il giudizio ad una giuria per un concorso, sicura di non vincere.
Non l’ho più riletto, eccetto una notte, nel posto dove tutto era ambientato, accanto al Parolaio che mi ascoltava, a cui stringevo la mano ogni tanto, e che fingeva di non rendersi conto quando la mia voce usciva rotta, incerta e strozzata.
Ridevo, di momento in momento. Perché non ricordavo quante cazzate avessi scritto, non m’ero resa conto di quanto mi fossi aperta e di quanto avessi lasciato di me, là dentro.
Oggi ho ricevuto una comunicazione, dalla giuria di quel concorso. Pare che la mia storia col Parolaio abbia vinto, sulla carta. Ha vinto 2.500 euro, spendibili in un viaggio, sulla carta.
Il cuore mi batteva forte forte, mentre mi si diceva “hey, sei arrivata prima”.
Sì, sono arrivata prima.
Complimenti, abbracci e baci. Felicità, più o meno. Dagli altri, dalla gente.
Batteristalcolizzato non mi ha detto “brava!”, il Parolaio s’è limitato ad un “potevi fare di meglio, chissà com’erano gli altri racconti che sono arrivati”. Grazie, eh. Grazie mille. Gli uomini che mi scelgo per farmi un minimo sorridere sono i migliori, c’è proprio da ammetterlo.
Ad ogni modo, bè, ho vinto. E parto, vado, via.
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