La mappa dei beni confiscati e destinati a Catania Le aziende, le case e i terreni tolti alla criminalità

Sono
centoundici i beni confiscati definitivamente alla criminalità organizzata nel capoluogo etneo e già destinati per altri usi che li restituiscano alla collettività. Ottantanove sono immobili: ville, terreni, appartamenti in condominio, case, garage e negozi. Gli altri ventidue sono, invece, aziende che spaziano dal settore delle costruzioni a quello della ristorazione, dai servizi alle imprese alle attività manifatturiere. La maggior parte di questi averi immobili tolti alla mafia sono stati destinati al Comune di Catania con lo scopo di riutilizzarli a fini sociali, qualcuno anche alle forze dell’ordine (polizia, guardia di finanza e carabinieri), ai ministeri e alle prefetture per fini istituzionali. Sono i dati forniti dall’agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata aggiornati allo scorso febbraio. 

Delle aziende, venti sono state destinate alla
liquidazione, una all’affitto a una impresa privata e per una è stata scelta la destinazione della vendita. Alcuni di questi beni sono stati confiscati alla mafia di recente mentre per altri il provvedimento risale anche alla fine degli anni Ottanta. Muovendosi sulla mappa interattiva si percorre la città di Catania da nord a sud, dalle periferie al centro. Si passa per terreni e ville confiscati nelle contrade delle campagne che circondano il centro abitato ad appartamenti e case nel cuore del centro storico.

Per i mafiosi «
cosa più brutta del sequestro dei beni non c’è», diceva il boss siculo-americano Francesco Inzerillo in una conversazione telefonica intercettata nell’ambito dell’operazione Old Bridge, nel febbraio del 2008. E, in effetti, la privazione di un bene ottenuto con guadagni illeciti collegabili alle attività criminali di un mafioso è il segno più tangibile della vittoria dello Stato. Ed è la privazione della ricchezza di cui la mafia si fa forte a infastidire i mafiosi che tengono molto al riconoscimento del loro potere intoccabile da parte della collettività per mantenere un controllo sul territorio. Dietro la possibilità concreta di trasformare un bene simbolo del potere criminale in patrimonio comune, c’è l’intuizione di Pio La Torre che, insieme al ministro dell’Interno Virginio Rognoni, ha ispirato la prima legge sulla confisca dei beni. Il passo successivo è poi stata l’approvazione, nel 1996, della legge sul riutilizzo sociale di quei beni.

L’iter che porta dal sequestro alla confisca però ha delle tempistiche molto lunghe e, ancor di più, il percorso verso il riutilizzo dei beni. I ritardi e le lentezze sono dovute ai passaggi fra vari soggetti istituzionali coinvolti nel processo che hanno il compito di creare un raccordo tra le sedi centrali del Governo e il territorio sul quale è presente il bene. Innanzitutto, l’agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata che, dal 2010, è l’ente pubblico che ha il compito di accompagnare il bene dal momento del sequestro preventivo fino alla destinazione al Comune di competenza, poi ci sono la magistratura, le prefetture e i Comuni. Spesso poi c’è da fare i conti anche con le occupazioni da parte di familiari dei mafiosi o con l’abusivismo di alcuni beni immobili. Le aziende, invece, qualche volta arrivano allo Stato del tutto prive delle capacità operative per essere attive nel mondo del mercato. 

Marta Silvestre

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