La mafia mi rende nervoso, opera prima di Isidoro Meli «Volevo scardinare i falsi miti della rappresentazione»

«Il libro, più che sulla mafia, è sulla sua rappresentazione. Prende in giro l’eccesso di toni epici cui di solito tende la narrativa, la saggistica, la pubblicistica sull’argomento». Lo dice il palermitano Isidoro Meli a proposito del suo romanzo d’esordio edito da Frassinelli, La mafia mi rende nervoso, ben consapevole che di questo cancro non può non parlarsi, ma capace di sviluppare un linguaggio e uno stile nuovi per farlo. I primi suggerimenti che si tratti di un libro assolutamente non convenzionale arrivano dal titolo dell’opera e dall’immagine scelta per la copertina: «Avevo un titolo provvisorio, che però era debole e datato. Il mio editore, Giovanni Francesio, ha suggerito questo titolo perché richiama il tormentone della voce narrante e a me è piaciuto. La copertina, invece – racconta Meli – è un’idea principalmente di mia moglie». 

Alla base, la necessità di scegliere qualcosa che comunicasse elementi della storia, ma che trasmettesse nello stesso tempo l’idea di un libro che trattava l’argomento mafia in modo insolito. «Mia moglie ha pensato al joypad rosanero, che è parte della storia. Un amico molto bravo con le foto ha realizzato l’idea. L’art director l’ha apprezzata e rifinita, aggiungendo alcuni elementi come il cappio». Riesce così a smorzare la pesantezza che tipicamente si tende ad associare alla parola mafia, per via di quello che rappresenta e ancor di più per come viene rappresentata, «con eccesso di retorica».

«Mi sembra che la narrazione intorno alla mafia si incentri sulla creazione di miti, positivi e negativi» prosegue l’autore. Miti che però, a detta di Meli, mostrano solo certi aspetti della realtà. La mafia diviene quindi un pretesto per parlare d’altro. «Ma la rappresentazione della mafia fa parte della mafia stessa. E per un palermitano, sedicenne nell’anno delle stragi, è un argomento cruciale. Perché è cresciuto in mezzo a quella rappresentazione, e quindi in mezzo a quella pesantezza». È in questi modi che nasce una storia che ricalca i meccanismi della commedia degli equivoci e del teatro latino di Plauto, forme efficaci nell’ottica della presa in giro. 

Mentre la voce narrante che accompagana il lettore durante la scoperta del libro è ispirata allo stile dello scrittore statunitense Kurt Vonnegut. «Infine, c’è una struttura noir, con tutti i suoi ingredienti più autentici, per quanto in un contesto atipico. Un morto ammazzato, una donna, la totale compenetrazione tra bene e male» continua l’autore. Siamo, quindi, in presenza di una sorta di «noir degli equivoci raccontato da un palermitano sarcastico e disilluso» dice, e precisa subito: «Sarcastico e disilluso perché cresciuto a Palermo, ovvero dentro alla mafia e al suo mito».

L’idea di un’opera realizzata in modo così particolare nasce dalla lettura di un saggio dedicato proprio all’argomento: «Solo tanta retorica dozzinale. Si esaltava la spietatezza e l’efficacia della mafia che usa i pizzini, si esaltava il rispetto verso i riti, verso la propria storia, insito nella scelta di uno strumento così arcaico. A me, invece, la storia che la mafia usa i pizzini fa ridere. E’ una cosa incredibilmente cialtrona» continua a spiegare Meli, che da qui inizia a immaginare dei pizzini che arrivano al destinatario sbagliato e che li interpreta a modo suo, generando un vero e proprio caos. Si snoda così la trama, in una giostra continua che oscilla tra fatti veri e altri puramente immaginari, sullo sfondo di luoghi noti e meno noti di Palermo.

Silvia Buffa

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