L’elenco delle vittime di mafia è sterminato e c’è chi, ancora oggi, attende giustizia perché dopo tanti anni non ha ottenuto verità. Come nel caso del procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa, ucciso a colpi di pistola a Palermo il 6 agosto di 36 anni fa mentre si trovava da solo e senza scorta davanti a una bancarella di libri nella centralissima via Cavour. Fu raggiunto alle spalle da tre colpi di pistola e l’autore l’omicidio, di chiaro stampo mafioso, a oggi non ha un nome. Proprio nella giornata della memoria delle vittime di mafia – Libera ha scelto Messina per la manifestazione nazionale nella XXI Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti della mafia – è giusto ricordare anche i casi dimenticati perché spesso, il silenzio, fa comodo proprio a chi non vuole che la verità venga a galla.
«Ad oggi non solo non si conoscono i mandanti ma addirittura nemmeno il nome del killer di mio padre – dice il figlio del procuratore, Michele Costa – . Ho sempre sostenuto che per i delitti eccellenti non siano mai stati scoperti i responsabili: da Falcone a Dalla Chiesa non si sa nulla. Nella migliore delle ipotesi sono stati condannati tagliagole che non avevano alcun interesse a compiere questo delitto. La morte di mio padre è rimasta ignota perché da sempre chiediamo la verità e non ci siamo accontentati di facili scorciatoie». Secondo Michele, infatti, alcune piste sono rimaste inesplorate, come quella battuta dalla Corte di Assise di Catania che individuò un possibile filone di indagine che, tuttavia, non fu mai seguito. «La strada della politica – sbotta – del delitto Mattarella, poi del delitto Reina che porterà al delitto di Rocco Chinnici. Totò Riina ha pagato per tutti: potevamo rassegnarci ma noi invece ritenevamo che non fosse così semplice. E chi cerca la verità in Italia è scomodo».
E Costa scomodo lo è stato per davvero. Pochi mesi prima della sua morte, l’8 maggio dell’80 aveva firmato di proprio pugno la convalida degli arresti di 55 mafiosi, tra questi Rosario Spatola, fermati quattro giorni prima, subito dopo l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Quel gesto coraggioso, accompagnato da un nuovo impulso nelle indagini di mafia che metteva in naso sui rapporti bancari dei boss, portò Cosa nostra a uccidere il magistrato. A tanti anni di distanza, però, il nome di Costa spesso rimane in ombra. Come la scorsa estate quando, in occasione del 35 anniversario della sua morte, alla consueta passerella mancavano molti rappresentanti delle istituzioni, Ars e Regione in testa.
«C’è un appunto di mio padre che racconta tutta le tappe di un omicidio di mafia di un personaggio illustre – ricorda – in un primo momento viene accreditata la tesi che se l’era cercata. Con mio padre si mise in giro la voce che era un massone ma senza successo. Poi si cerca di dimenticare: un modo per uccidere una seconda volta un magistrato morto per mano mafiosa è cancellarne la memoria. Perché qualcuno potrebbe seguire i suoi passi». In tutti questi anni avvolti nel silenzio, l’amarezza non ha comunque scalfito in lui la voglia di conoscere la verità. «Non ho perso la speranza o meglio non voglio perderla perché il nostro Paese si potrà salvare solo se alcuni grandi misteri, come i delitti di mafia, verranno svelati. Continuo a sostenere però che su nessun delitto di mafia sia stata mai fatta verità perché sono rimasti ignoti i nomi dei veri mandanti».
A vacillare, forse, è la fiducia nelle istituzioni e anche nella magistratura: dall’antimafia di facciata al caso della Saguto, cosa è cambiato da allora? «Non è cambiato nulla – afferma sconsolato – la mafia, contrariamente a tutte le altre organizzazioni criminali, si fonda sul consenso. La mafia non è stata emarginata e ha bisogno di essere legata al potere. Cambiano le persone, gli uffici ma la collusione c’è sempre». Il cambiamento, invece, è possibile ma deve partire dal basso, dalla società civile ma «solo se c’è una rivolta morale. È vero – aggiunge – in questi anni sono nate associazioni come Addiopizzo e Libera, esempi positivi ma non sufficienti. Non siamo ancora pronti per una vera svolta – conclude amareggiato – la strada è in salita e non ci sono scorciatoie».
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