Cosa nostra, il boss e gli ordini dal carcere Investigatori: «Pizzo per sostenere spese legali»

Al centro dell’indagine, coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco, e che oggi ha portato all’arresto di 22 tra capi e gregari del mandamento di Bagheria nell’ambito dell’operazione Reset 2 dei carabinieri, c’è Pietro Giuseppe Flamia, soprannominato “il porco“. Cugino del collaboratore di giustizia Sergio Rosario Flamia, che agli investigatori ha ricostruito le dinamiche del mandamento fin dai primi anni 2000, Pietro Giuseppe Flamia in passato era rimasto coinvolto in indagini giudiziarie per «aver direttamente gestito spostamenti e appuntamenti del padrino Bernardo Provenzano, all’epoca latitante» spiegano gli investigatori.

Nel maggio del 2013, quando il blitz Argo smantellò il mandamento di Bagheria, toccò anche a lui darsi da fare. C’erano da mantenere le famiglie dei detenuti con un’imposizione a tappeto del pizzo. Nel 2014 una nuova operazione antimafia lo portò in carcere. E proprio dalla sala colloqui del carcere Pagliarelli di Palermo, dove era rinchiuso, ha continuato a impartire disposizioni ai suoi familiari. Bisognava contattare i membri della famiglia rimasti fuori per conoscere i nuovi assetti e per avere il denaro sufficiente a pagare i suoi avvocati. E poi c’era il figlio da sistemare.

Durante un colloquio nell’aprile del 2014 con la moglie, Pietro Giuseppe Flamia spiegava il da farsi. «Vai e gli dici: “A livello di duecento euro che io glieli porto… perché deve fare il Tribunale della Libertà”». Ma non c’era solo il pagamento delle spese legali. Occorreva anche trovare un lavoro al figlio da tale Giustino, anche facendo licenziare un altro impiegato. Intercettato dalle cimici degli investigatori raccomanda alla moglie: «Vai e gli dici: “Vediamo di infilare a Giacomino… o chiama a Giustino e gli dice che se lo deve mettere a fianco a Giacomino e che i lavori se li deve fare con Giacomino”. Pure che licenzia a un’altro… o… e parla con quello… gli dice: “Vediamo di impostare … perché là sono… non possono nemmeno mangiare“. Gli dici: “Giorgio non possiamo nemmeno mangiare». «È la verità» gli risponde la moglie.

«Dalle indagini emerge ancora una volta la centralità del pizzo – spiega il colonnello Salvatore Altavilla, comandante del reparto operativo dei carabinieri di Palermo -. Il racket resta il principale strumento di sostentamento dei detenuti e delle loro famiglie». Un’imposizione che ha portato in rovina un imprenditore, costretto sin dagli anni Novanta a versare nelle casse di Cosa nostra tre milioni di lire all’anno. «La sua è una vicenda emblematica – ha detto ancora Altavilla – perché ha continuato a pagare anche quando il suo aguzzino è finito in carcere. Per far fronte a una richiesta estorsiva di 200mila euro ha dovuto persino vendere la sua casa e cedere l’ultimo appezzamento di terreno che gli era rimasto».

Le indagini, spiegano gli investigatori, proseguono. «In costante contatto con le associazioni antiracket come Addiopizzo e Libero Futuro, che hanno contribuito al risultato odierno» ha spiegato il comandante provinciale dei carabinieri, Giuseppe De Riggi, sottolineando «le ricadute sociali che questa pressione di Cosa nostra ha sul tessuto imprenditoriale della provincia». Resta una luce in fondo al tunnel, perché la collaborazione spontanea di una decina di imprenditori che, dopo un decennio, hanno rotto il muro dell’omertà e quella delle vittime che hanno ammesso le estorsioni una volta convocati sono «un segnale importante in un territorio difficile come quello di Bagheria. Un segnale che talvolta nemmeno a Palermo si registra» ha concluso De Riggi.

Rossana Lo Castro

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