La mafia delle vecchie regole nei racconti di Squillaci Omicidi, le sentenze sistemate e quel gruppo segreto

Nel nome del padre. Da Giuseppe Squillaci al figlio Francesco. C’è un boss, un tempo stimato fantino della scuderia di Cosa nostra catanese, che ormai da diversi mesi ha deciso di voltare pagina. Lo ha fatto riempiendo verbali e parlando con i magistrati della procura etnea, come già aveva in parte iniziato a fare nel 2014 da dichiarante. Così sulle sue labbra sono finiti nomi e cognomi che contanoCome quello dell’editore ed ex direttore del quotidiano La Sicilia Mario Ciancio. O quello di un giudice, ormai in pensione, un tempo presidente della corte d’Assise del tribunale etneo. Accusato addirittura di avere sistemato una sentenza per un fatto risalente al 1989. Due uomini del clan tentarono di uccidere Antonino Caruso, un carabiniere in congedo, mentre era intento a recarsi a caccia in contrada Cuba, nel territorio di Misterbianco, insieme al nipote. Quella del 50enne Squillaci è una storia di una mafia all’antica. In cui la carriera criminale cominciava da vivandiere. Passando per la prima estorsione e per il battesimo di sangue con il morto lasciato a terra. Per arrivare alla punciuta, la cerimonia d’affiliazione con l’immagine della Madonna che brucia tra le mani, aspetterà dieci anni. Perché Francesco Squillaci, detto martiddina, diventa ufficialmente un capo di Cosa nostra soltanto nel 1994.

I suoi racconti, contenuti in verbali esclusivi, sono stati depositati nei mesi scorsi tra i documenti del tribunale Misure di prevenzione e rivelati durante la requisitoria dell’accusa. Con i giudici impegnati a valutare, nel processo di secondo grado, quale sarà il futuro dei beni dell’editore Ciancio. Lo stesso che Squillaci accusa di essersi fatto organizzare dall’anziano boss Nitto Santapaola un finto attentato per allontanare le troppe attenzioni che la magistratura gli stava dedicando nell’estate del 1990. Quella dei mondiali di calcio in Italia e delle notti magiche di Totò Schillaci. Ma nei racconti di Squillaci c’è anche tanta storia della mafia a Catania. 

Con la sua ascesa sarebbe coinciso il declino del sanguinario Giuseppe Pulvirenti, il malpassotu. Attorno a quest’ultimo, poi diventato collaboratore di giustizia, il nuovo corso capitanato dal boss Eugenio Galea. Tutti coloro che si opponevano al passaggio con i Santapaola dovevano essere eliminati: bisognava fare «terra bruciata». Come avvenne con due esponenti del gruppo di San Giovanni Galermo. «Io stesso ho partecipato quando sono stati strangolati», racconta Squillaci. Nonostante l’arresto, nel 1994, l’ex boss avrebbe continuato a comandare anche dal carcere, o come preferisce dire lui «a essere operativo». Che nel linguaggio mafioso significa ordinare omicidi e battezzare nuove leve. Un copione sempre uguale almeno fino al 2009. Quando il boss finisce in isolamento per qualche mese. A quel punto, sfruttando il fratello Nicola, avrebbe fatto sapere fuori che lui con la mafia non voleva avere più niente a che fare. «Nel carcere di Milano ho cominciato a conoscere una realtà diversa», spiega. 

Un nuovo corso che nulla aveva da spartire con l’ambizioso progetto di qualche anno prima. Quando il gruppo dei martiddina, insieme al clan Strano di Monte Po, abbandona Cosa nostra per passare al clan Cappello. Una migrazione criminale che secondo alcuni pentiti sarebbe coincisa con l’ambizioso progetto di creare una nuova famiglia mafiosa con la benedizione di Palermo. Tra le ombre che Squillaci potrebbe dirimere ci sono anche quelle relative al duplice omicidio di Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta dirigenti dell’acciaieria Megara freddati a colpi d’arma da fuoco il 31 ottobre 1990, alla zona industriale di Catania. Racconti che porterebbero al clan degli Sciuto-Tigna e ai risentimenti che il duplice omicidio avrebbe provocato ad alcuni esponenti della mafia palermitana. Gente di spessore, di quelli che «sì facevanu fari i corna per Bernardo Provenzano», insomma «erano innamorati pazzi di lui».

Secondo quanto appreso da MeridioNews, le rivelazioni di Squillaci si sarebbero estese anche fuori dalla provincia di Catania. Dalle armi pesanti, tra cui un bazooka e lancia razzi, che un clan avrebbe comprato per 500mila euro da venditori balcanici. E che avrebbe voluto utilizzare per uccidere un giudice. Fino alla costituzione, dopo l’omicidio dell’ispettore Giovanni Lizzio commesso proprio da Squillaci a Catania, di un gruppo segreto di mafiosi palermitani e catanesi per commettere omicidi eccellenti fuori dai confini dell’Isola. Di questo però il diritto interessato non saprà più nulla a causa della latitanza. Di sicuro c’è che continueremo a sentire ancora parlare di Francesco Squillaci. 

Dario De Luca

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