C’è una
piccola fattoria in marcia lungo via Etnea. Sotto le luci di Natale, nel salotto buono della città, in mezzo alla passeggiata serale dei catanesi, zampettano in fila indiana: una capra e due caprette, una papera e cinque cagnolini meticci. Sono seguiti da tre ragazzi, che spingono due carrelli del supermercato con dentro il resto della comitiva: due anatroccoli, due galline, un gallo e un maialino nero addormentato. I bambini fermano i genitori per fotografare la scena. «La gente pensa che sia pazzo, ma stare a contatto con la natura è la vita che ho scelto», dice Marco, 26enne metà danese metà catanese, che racconta di avere abbandonato quattro anni fa il suo ufficio in Danimarca e, dopo avere girato il mondo, di essere tornato a Catania e avere comprato gli animali su un portale di aste online. Adesso progetta il suo futuro in Africa.
Il prossimo arrivo sarà un
asinello. «Per aiutarmi a trainare i carrelli», al cui interno ci sono anche abiti, una chitarra scassata e qualche altro oggetto. Marco parla dei suoi sogni mentre cammina, a piedi nudi, sul basolato in pietra lavica bagnato, diretto insieme ai suoi animali e ai suoi due amici verso piazza Università. La loro presenza, insolita, non passa certo inosservata: «La città non è adatta agli animali – sostiene – Ma lo siamo pure noi esseri umani». È questo il pensiero che lo ha portato ad abbandonare, quattro anni fa, il posto di lavoro e la sua quotidianità: «Lavoravo per guadagnare. Poi mi sono reso conto che non mi restava tempo né modo per vivere come avrei voluto fare». Vendeva prodotti finanziari da un call center danese. Si è licenziato, spiega, e ha cominciato a girare il mondo, spendendo i soldi che aveva messo da parte: Europa, Centro America, Africa. Racconta di essere passato pure dalla Malesia, di cui porta addosso un tatuaggio sulla fronte. Ci sono raffigurati una donna con in braccio un bambino; un uccello, degli alberi: «La natura, la vita che ho scelto».
Da quattro mesi vive a Catania, in una casa abbandonata del centro storico che affaccia su un giardino; là gli animali che ha portato, legati, a spasso per via Etnea «sono lasciati liberi di fare ciò che vogliono». I suoi compagni di avventura li ha
acquistati online, e non per allevarli: «Sono vegano, mangio solo verdure. Loro – dice prendendo in braccio una capretta – fanno parte della mia vita, li porto sempre con me. Ballano la mia musica». Marco veste una tuta leggera, sulla quale tiene un plaid a quadrettoni rigirato attorno ai fianchi e fissato da una corda, e indossa una giacca di lana stretta sulla spalla dallo spago che regge un djembe. Suona questo strumento a percussione e accetta l’elemosina dei passanti. Vive pure di una rendita mensile, e i soldi, dice, gli servono – oltre che per le necessità quotidiane – pure per raggiungere un sogno: «Trasferirmi in Africa a coltivare la terra, vivere dei frutti che la natura produce e condividerli con la comunità». In mente ha l’intenzione di prendere un pezzo di terreno in Uganda o in Kenya: «Magari a Malindi, dove ci sono tanti italiani».
Parla in perfetto
inglese con uno dei due amici che ha accanto, che è straniero – «l’ho incontrato in giro per la città» – risponde in italiano a chi gli domanda cosa ci faccia in via Etnea con la sua piccola fattoria; racconta in dialetto siciliano, con accento dell’entroterra, i suoi ricordi più nascosti. Nato in Danimarca come sua madre, a quattordici anni, dopo la separazione dei suoi genitori, dice, si è trasferito dai nonni paterni, a Mineo. Di sua madre ha il colore dei capelli – che sono biondi e ricci – e gli occhi verdi. Ma del rapporto coi genitori non parla volentieri. Il suo sguardo si abbassa su un pacchetto di tabacco, che apre per arrotolare una sigaretta: «Li sento di rado. Mi riempiono di benedizioni ma non mi domandano come sto. Per loro sono fuori di testa, hanno perso l’interesse a capirmi».
È lo stesso atteggiamento di chi, sostiene, incrociandolo per strada «
mi giudica per quel che vede e crede che io sia, senza farmi alcuna domanda. E sono soprattutto le persone adulte a farlo, come i miei genitori», ripete. Lungo la camminata verso la piazza in cui si trova la sede centrale dell’Università, passando davanti alle vetrine dei negozi riaperti dopo le feste alcuni adolescenti ridono della bizzarra carovana di umani e animali: «Sono vere le capre?», si domanda un ragazzo; «Sì, non senti la puzza?», risponde sorridendo l’amico accanto. Tutti i bambini, invece – e sono tanti a passeggiare imbacuccati, insieme ai più grandi, per le vie del centro – incontrando lui e la sua piccola fattoria girano lo sguardo, stupiti puntano i piedi a terra e tirano il braccio dei più grandi per attirare la loro attenzione. Vogliono una foto ricordo di quelle – o con quelle – singolari creature «che somigliano ai pupazzetti che abbiamo nel presepe», dice sorridendo un bambino. «Compreso il pastorello», aggiunge perplesso il papà.
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