Credevo che fare il giurato a Venezia fosse una bella cosa, ma mi sono bastati due film – visti al cinema – per ricredermi. “La pecora nera” e “Somewhere” sono davvero brutti: il primo un pochino, il secondo molto. Ne parlo insieme così archivio la pratica, manco me l’avesse ordinato il medico.
“La pecora nera” è un’opera pretenziosa, ostica: Ascanio Celestini si fa fatica a collocarlo nel panorama culturale italiano. Venuto fuori dalla letteratura e dal teatro, raggiunse un certo successo, complice un’improvvisamente presbite RadioTre, con “Memorie di uno scemo di guerra”, una scopiazzatura in romanesco di “Mattatoio numero 5”. Ha vivacchiato un po’ in tv grazie alla Dandini, interpretando il ruolo del sinistrorso duro e puro: di lui si ricorda lo sforzo per attirarsi gli strali del grande capo.
Il film si occupa di malattia mentale e di vite di confine tra gli anni ’60 e oggi, cioè tra l’epoca avanti Basaglia e l’epoca dopo Basaglia. Ma delle novità introdotte da Basaglia nell’approccio ai problemi psichiatrici non vi è traccia nel racconto: i malati di mente al centro del film carcerati erano prima e carcerati appaiono dopo. Il titolo fa riferimento al protagonista: da bambino è vittima di pregiudizi e pressioni familiari che lo conducono all’isolamento, quindi all’internamento in istituto fino a che, ormai adulto, non scivola verso la perdita del senno. Più che empatia gli sfortunati ospiti della struttura trasmettono distanza. Sarà che la falsa, però travolgente, rappresentazione del default mentale in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” condiziona molto il giudizio del recensore.
Passiamo a “Somewhere”, addirittura Leone d’oro. Una cosa noiosissima, a partire da un soggetto per nulla originale, ma potenzialmente ricco di spunti drammatici. Più da rabbia che da sbadigli comunque. Ricco e famoso attore hollywoodiano trascina la sua esistenza tra la suite di un albergo extralusso, un giro in Ferrari, relazioni frivole e premi ritirati a Milano nella sagra del kitsch che è la festa dei Telegatti in mezzo alla Ventura e alla Marini. Sofia Coppola mette in piedi un film scarno, con una sceneggiatura vuota, forse a rendere esplicito il vuoto del mondo luccicante del cinema e delle sue biografie una volta lontane dalla macchina da presa. Però questo significa prendere in giro lo spettatore (ma gli si può dare anche il nome di onanismo).
L’attore principale, Stephen Dorff, è bravino, sebbene la mancanza di narrazione e inventiva indurrebbe a mettere un non classificato. “Lost in traslation” (2003) si lasciava guardare senza essere niente di che: si teneva insieme in maniera esile sì, ma Scarlett Johansonn e Bill Murray non erano male e il Giappone appariva un bel posto straniante. “Somewhere” sono solo i soldi del biglietto buttati.
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