Quando all’altro capo del filo risponde la voce flebile e determinata di Federica Montisanti, operatrice umanitaria di Intersos-Unicef rimasta a bordo della nave Diciotti per oltre dieci giorni, ci si aspetta un racconto dai toni quasi epici, una sintesi piena di dettagli. Invece l’esperienza a bordo della nave che è costata a Matteo Salvini un’indagine per sequestro di persona, deve ancora essere sedimentata. Le emozioni sono state tante, contrastanti e concentrate in pochi giorni. Così i ricordi sono ancora confusi, mentre un’immagine, su tutte, resta ferma nella mente: è il momento della preghiera, recitata ogni sera insieme al diacono greco-ortodosso presente tra i migranti che per giorni sono rimasti prima fermi in mare aperto e poi attraccati al porto di Catania.
«Quel momento di preghiera – racconta Montisanti a Meridionews – è stato un rituale che si è ripetuto tutte le sere, sul ponte della nave. Si riunivano e imbastivano questa messa, intervallata dai canti delle donne. Abbiamo avuto modo di conoscerci, anche attraverso quel rituale, e forse uno dei momenti più belli si è verificato proprio a margine della messa: un giorno hanno richiesto che preparassimo del tè, necessario appunto come parte di un rituale ben preciso. Ma naturalmente a bordo della Diciotti non tutti professavano la religione greco-ortodossa. Così il diacono è venuto da noi con un gruppo di musulmani, sottolineando che i “fratelli” non avrebbero preso parte al rituale religioso, ma – continua l’operatrice – premurandosi di chiederci di versare il tè anche a loro. Credo che quel momento renda bene il fatto che, nonostante le difficoltà, a bordo di quella nave si era formato un gruppo molto solidale».
Montisanti, come chi si sente parte di una comunità che ha vissuto qualcosa di intenso insieme, non si sofferma sulla sofferenza subita dai 190 eritrei salvati dalla Diciotti lo scorso 16 agosto, giorno in cui iniziata la loro seconda odissea, stavolta politica, per mettere piede in Europa. Racconta invece i momenti di euforia, quando i migranti sono stati salvati in mare, quando la nave ha attraccato al porto di Catania, quando finalmente sono scesi tutti.
Le donne che hanno rifiutato di scendere dalla nave, separandosi dai loro compagni? «Si notava, in quei giorni, che ci fossero alcune coppie particolarmente unite. Abbiamo provato a spiegare loro che ci sono diverse organizzazioni umanitarie che fanno un lavoro incredibile per ricongiungere i componenti di uno stesso nucleo familiare. Ma loro avevano costruito un rapporto talmente forte coi loro compagni che non se la sono sentita. Quei legami, noi li avevamo già notati da giorni. Spesso capita che in una situazione di stasi, molte coppie si allontanino. Loro, invece, restavano sempre insieme».
Ma a bordo della nave rimasta attraccata a Catania per cinque giorni, oltre le coppie, in tanti viaggiavano da soli. I minori non accompagnati, ma anche giovani adulti, uomini e donne, che scappavano dalla leva militare obbligatoria per tutti in un Paese in guerra, come l’Eritrea. C’erano studenti medi, laureandi in medicina. A bordo della Diciotti c’erano centinaia di sogni nel cassetto, che viaggiavano «alla ricerca di una vita finalmente normale». Quella vita, finalmente normale, che adesso ciascuno di loro cercherà di costruirsi in Europa.
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