La decimazione

Gianni Morandi, cantore del celeberrimo motto “uno su mille ce la fa”, sarebbe fiero del numero chiuso. La proporzione di cui parliamo non è proprio la stessa. Erano però duemilacinquecento gli studenti che si sono presentati alla Cittadella universitaria, alle 8:30 del 3 settembre 2009, per sostenere i test d’ammissione alla facoltà di Medicina e chirurgia. Dovendo contendersi soltanto 300 posti, in sostanza uno studente è dentro ogni 8,33 potenziali colleghi che rimangono fuori (cioè, uno ogni otto e un pezzo – un braccio, una gamba, una testa…). Quantitativamente la procedura somiglia alla decimatio negli eserciti dell’antica Roma.

In mezzo al ripasso dell’ultimo minuto, all’isteria del pre-test, e alla stanchezza per una notte insonne, il nervosismo, alla Cittadella, era palpabile. Più tra gli accompagnatori che tra i candidati, a dirla tutta. Un’ansiosa madre s’è rifiutata di passare sotto una scala, sostenendo che portasse sfortuna, e un gruppetto di genitori ragusani discuteva su quanto fosse poco opportuno dare un’occhiata agli affitti delle camere per i figli, giacché è sempre sbagliato bagnarsi prima che piova.

Pamela è arrivata davanti all’aula di svolgimento dei test tra i primi: alle 7:30 del mattino, direttamente da Siracusa, per accompagnare la figlia, neodiplomata. «C’erano già centinaia di ragazzi, quando siamo arrivate», ci racconta «e nessuno che ci desse informazioni utili su dove dovessimo andare. Alle 8:30 hanno iniziato a chiamarli dentro, e l’attesa, quella vera, è cominciata». Rosanna, anche lei madre al servizio della figlia, viene da Lentini e si dichiara soddisfatta in ogni caso: «Mia figlia non s’è presa neanche un giorno di vacanza, quest’estate. Anche se non ce la facesse, s’è messa alla prova ed è importante. Non ha voluto fare il corso organizzato dal Cof, e neanche quello dell’Unimed, nonostante le avessero detto che farsi preparare da loro è molto più utile che studiare da soli». Controversa questione, quella dell’Unimed. Costosa, soprattutto. Duecento euro al mese, per un anno: secondo chi questi soldi li ha spesi, pagare dà una marcia in più.

Cettina, di Augusta, è una farmacista. Sospirando, ci racconta di quanto le dispiaccia che sua figlia non abbia optato per seguire le sue orme, almeno non al primo tentativo. È tornata ieri sera da Roma dove, per la modica cifra di 100 €, l’Università Cattolica ha aperto i battenti agli aspiranti medici da testare. «Questi quiz sono ingiusti!», si sfoga «La selezione si dovrebbe fare dopo, e sarebbe naturale, non forzata prima di iniziare le lezioni…». Dello stesso parere sono Gaetano, Calogero e Giuseppe, catanesi, rispettivamente ginecologo, medico di base ed anestesista. Fuori dal dipartimento di matematica, attendevano chiacchierando che uscissero i figli, intenzionati a seguire la stessa strada dei genitori.

Tra una battuta e l’altra, abbiamo sottoposto loro alcuni quesiti di cultura generale, estrapolati dalla prova d’ammissione del 2008. Quasi senza esitazione hanno individuato l’autore del “De Bello Gallico”, hanno definito la “maieutica” (ma il ginecologo, in questa, partiva avvantaggiato) e hanno riconosciuto i primi versi de “L’infinito” di Giacomo Leopardi. Loro, che trent’anni fa iniziavano il loro percorso all’università, ricordano il primo giorno di lezione: «Eravamo 300 per aula, non riuscivamo a trovare il posto per sederci, al primo anno. Alla laurea siamo arrivati in settanta», sorridono, ricominciando, subito dopo, a rispondere alle domande del test.

“Carneade, chi era costui?”. Bè, se non lo sapeva Manzoni, perché dovrebbe far parte del bagaglio culturale di uno studente appena uscito dalle superiori? Sapere quali fossero le colonie dei paesi europei, poi, ha richiesto la formazione di un piccolo pool di risolutori, che neanche la Settimana Enigmistica. Se il Corno d’Africa era italiano e il Congo era belga, va da sé che nessuna delle opzioni proposte dal Ministero è corretta. Risposta esatta, peccato che gli studenti non possano confrontare le proprie conoscenze né dedicare cinque minuti alla riflessione su ogni crocetta da mettere. «Parliamoci chiaramente: se avessimo fatto il test quest’anno, non avremmo mai avuto la possibilità di fare i medici. Eppure è il nostro mestiere, da anni, e lo facciamo con devozione e passione. Col numero chiuso ci va di mezzo il diritto allo studio, ed è ingiusto», concludono.

Magari parlano così perché ad essere in discussione è il diritto allo studio dei loro figli, magari ne sono convinti realmente, magari hanno ragione i fautori dell’accesso programmato (niente è impossibile, del resto), quando dicono che senza sbarramento ci sarebbero troppi medici per pochi posti. Questa controindicazione, però, andrebbe spiegata in maniera più approfondita a quelle decine di migliaia di studenti di tutt’Italia che, dopo il test, si formeranno la convinzione che il destino è cinico e baro, e che, invece di provare a iscriversi a Medicina, sarebbe stato meglio giocare al Superenalotto. Per vincere facile, eh.

Luisa Santangelo

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