Venti minuti. Densi di commozione. Manfredi Borsellino arriva a sorpresa nell’Aula magna della Corte d’Appello di Palermo. Alla commemorazione, organizzata al Palazzo di giustizia dall’Anm, in occasione del 23esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il padre, Paolo, e gli angeli della sua scorta, non era atteso. Quando prende la parola il silenzio è surreale. «Non sono qui per mio padre, ma per mia sorella Lucia, che non vuole, non può parlare» dice subito. In platea ad ascoltarlo ci sono, tra gli altri, il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e i ministri dell’Interno e della Giustizia, Angelino Alfano e Andrea Orlando.
Legge il suo intervento Manfredi. Perché «non voglio commuovermi, preferisco leggere un testo, parole importanti che è bene leggere». Inutile precauzione perché la commozione arriva per lui e in sala. In scaletta non era previsto, ma la presenza di Mattarella a Palermo per ricordare il padre lo ha convinto a esserci. Con il capo dello Stato condivide un percorso di dolore. Lo stesso tragico vissuto. «Lei è sempre stato un punto di riferimento per mio padre e la mia famiglia – dice -. Ho sempre notato la reverenza, il grado di stima che provava nei suoi confronti. Già lo scorso anno ho provato a ricordare mio padre, ricordare – sottolinea Manfredi – non commemorare, perché si commemorano i morti visto che io lo ritengo vivo».
Ma è alla sorella Lucia che Manfredi dedica il suo intervento. Perché lei, la maggiore dei tre fratelli, «quella con cui mio padre dialogava anche solo con lo sguardo» a distanza di 23 anni dalla strage, si è trovata a vivere «un calvario simile» a quello del padre, «nella stessa terra che elevato mio padre, suo malgrado, a eroe». Sulle presunte intercettazioni choc, pubblicate da L’Espresso tra il governatore siciliano Crocetta e il primario di Villa Sofia e medico personale del presidente Crocetta, Matteo Tutino, arrestato a fine luglio con l’accusa di truffa, peculato, abuso d’ufficio e falso, e smentite dalla Procura, non può «entrare nel merito». Sono indiscrezioni giornalistiche che, «indipendentemente dalle verifiche fatte dagli uffici giudiziari, hanno turbato tutti». Ma non la diretta interessata, perché «da oltre un anno mia sorella Lucia era consapevole del clima di ostilità e delle offese subite solo per adempiere il suo dovere» dice Manfredi. In una storia di «corsi e ricorsi drammatici» che ricorda quella del giudice antimafia.
«Lucia – prosegue il fratello – ha portato la croce fino al 30 giugno di quest’anno». Al suo posto è rimasta perché «ama a dismisura il suo lavoro, per suo padre, perché voleva la sanità libera e felice, per amore di giustizia, perché voleva spalancare agli inquirenti le porte della sanità». Ma alla lettera di dimissioni con cui ha lasciato l’incarico e che «dice tutto e andrebbe riletta» è seguito «il silenzio sordo delle istituzioni, soprattutto regionali». «Avrei dovuto chiedere al capo della polizia Pansa di esser destinato altrove, lontano da una terra che è davvero disgraziata. Ma non solo non glielo chiedo, ma ribadisco con forza che ho il dovere di rimanere qui, lo devo a mio padre e lo devo sopratutto a mia sorella Lucia». L’intervento si conclude. Manfredi è visibilmente scosso. Il presidente della Repubblica lo abbraccia. Un gesto accompagnato da un lunghissimo abbraccio.
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