LA CITTÀ INVISIBILE / Campionati fai-da-te

«La serie A? L’avevamo conquistata nel 2004, finalmente. Eravamo pronti a iscriverci, poi abbiamo fatto i conti e abbiamo capito che non avevamo abbastanza soldi. E allora abbiamo deciso di fare di nuovo la B, di chiamare un allenatore americano. Di imparare ancora». Giuseppe Strano ha 26 anni, un metro e ottantasei di altezza, quasi cento chili di peso. Fisico da pallavolista. Oppure, da giocatore di football. A pallavolo Giuseppe ha giocato per undici anni, come migliaia di ragazzi catanesi. Poi ha conosciuto il football americano in Tv. «Uno sport spettacolare, che richiede sacrifici, in cui si danno botte da orbi. Ma anche uno sport leale, in cui dopo la partita magari vai a cena con gli avversari. E soprattutto uno sport aperto a tutti: alti, bassi, magri, un po’ più grossi, gente che magari verrebbe scartata nel basket, nella pallavolo o nel calcio. Nel football no: per ciascuno c’è il ruolo adatto. Tra i miei compagni di squadra, per esempio, c’è un ragazzo di 150 chili. Ed è uno dei migliori». Uno sport costoso, il football americano: in trasferta devono andare non meno di 30-35 atleti, senza contare dirigenti e tecnici. Il viaggio più breve per la squadra catanese – gli Elephants, in cui Giuseppe gioca da receiver e in cui fa anche il dirigente – è quello per Napoli. Quasi sempre si deve partire in aereo. È uno sport che a Catania vince, anche se poi è costretto a retrocedersi per mancanza di soldi. Uno sport senza alle spalle un vero movimento, una piramide dal vertice alto e dalla base molto stretta: appena quaranta praticanti in tutta la provincia. Praticamente una sola squadra.

Uno sport che vince, uno sport di palla ovale. Come il rugby, che di praticanti ne ha molti di più – un migliaio gli atleti nella provincia – ma che vive, anch’esso, di molti entusiasmi e di pochi denari. L’Amatori Catania in due anni è arrivato dalla Serie B (terza divisione) al Super 10 (la massima serie). «C’è stato un grande investimento di risorse e di lavoro – dice Alberto Paolone, ex capitano dell’Amatori, oggi medico sociale della squadra – e quest’anno, malgrado il nostro obiettivo fosse la salvezza, abbiamo raggiunto la semifinale scudetto. È stato quasi un miracolo, nessuno se lo aspettava, perché abbiamo comprato molti giocatori a scatola chiusa, pagandoli quindi relativamente poco, e abbiamo scoperto dei campioni». E il futuro? «Abbiamo molto pubblico, la gente ci segue con passione, questo dovrebbe aiutare a far nascere nuovi atleti. Ma spesso accade che, a fine stagione, alcuni dei giocatori che abbiamo fatto crescere vadano via per chi offre di più». Quest’estate il primo ad andarsene è stato il tecnico Jean Michel Vuillelmin, seguito da molti giocatori. Per sostituirli, sono stati ingaggiati tre atleti argentini ed un catanese emigrato al nord. Quest’anno, dunque, si riparte da capo.

Catania da serie A: una città che si diverte e vince ma di cui, a volte, si parla poco. Una vittoria, qualche volta, può nascere nel giro breve di un’estate. Come nel beach soccer, il calcio da spiaggia. Tutto è iniziato ufficialmente l’estate dell’anno scorso con il primo campionato nazionale. «Siamo partiti senza far rumore, poi abbiamo vinto le prime tappe e incredibilmente ci siamo ritrovati a fine stagione con la Coppa Italia in tasca e il terzo posto in Serie A», dice il dirigente Carmelo Musumeci. «La squadra catanese è formata da ragazzi giovanissimi ma che sulla sabbia riescono ad essere molto competitivi». La società si è formata solo nel 2004 e ha raccolto i migliori talenti che si erano esibiti in tornei amatoriali al Lido Azzurro.

Altre volte, invece, la serie A a Catania è un’abitudine decennale. Come nel caso dell’hockey su prato. I ragazzi se la cavano discretamente (Cus Catania e Valverde sono in Serie A2). Ma è in campo femminile che il Cus è una delle squadre più vincenti di sempre: dodici sudetti e, l’anno scorso, un secondo posto in serie A1. «Dopo un periodo di crisi» sottolinea il presidente del Valverde Antonino Corsaro «da un paio d’anni i giovani sono tornati ad avvicinarsi all’hockey». Gli hockeisti catanesi sono circa 350.

Sport da scudetto, sport da medaglia olimpica. I titoli di campione d’Italia conquistati dalle ragazze dell’Orizzonte Catania di pallanuoto femminile sono stati, dal 1990-91 a oggi, 14. A questi vanno aggiunte 6 coppe dei Campioni e una bella fetta delle vittorie del Setterosa, fino all’oro olimpico di Atene. La società di Nello Russo ha sempre indovinato gli investimenti e gestito benissimo le sue risorse. Una piramide dal vertice altissimo, costruita stavolta su una base abbastanza ampia: un movimento a livello provinciale che conta, su 26 società, circa 800 atleti.

Che sono tanti, ma non tantissimi. I dati sulla pratica sportiva, a Catania e in provincia, rivelano una realtà che si sottrae spesso alla prevedibile geometria di ogni fenomeno sportivo: tanto più larga la base, tanto più ricco il vivaio, tanto più attento il pubblico, tanto più probabile che si arrivi in alto. Invece – l’abbiamo visto – il grafico dello sport catanese registra qualche piramide con il vertice alto e la base molto stretta. Ma anche molte altre con la base larghissima, i cui risultati di vertice non arrivano al di sopra della mediocrità.

Il calcio, certo, è sempre un caso a parte. Ovviamente è lo sport con più tesserati: a Catania e provincia giocano 8500 piccoli calciatori, divisi in circa 200 società. Ma subito dopo – con quasi cinquemila praticanti – c’è la pallavolo. La pallavolo ha vinto moltissimo, alla fine degli anni ’70. La Paoletti e l’Alidea campioni d’Italia, rispettivamente nel volley maschile e in quello femminile; e dopo gli scudetti ancora alcuni anni al vertice. Anni in cui l’unico impianto esistente, il Palazzetto di piazza Spedini, era in grado di accogliere poco più di duemila spettatori. Con incassi minimi, le grosse squadre entrarono in crisi appena gli sponsor si ritirarono. Oggi esiste un impianto – il Palacatania – in grado di ospitare circa settemila spettatori; e potrebbe esistere, a giudicare dal numero dei praticanti, anche un pubblico numeroso e competente. Eppure il vertice resta bassissimo.

«È mancato un imprenditore di riferimento – spiega Fabio Pagliara, ex giocatore del Cus Catania e presidente di Metacatania, un’associazione che organizza conferenze e competizioni sportive –. Il movimento c’è, ci sono i tesserati. Ma manca un imprenditore che abbia voglia di investire, che abbia i fondi necessari e la giusta passione». Niki Pandolfini, giornalista della Rai di Catania, è una memoria storica di questo sport. Ha cominciato proprio raccontando Paoletti e Alidea dai microfoni di una radio locale: «Il campionato vinto dalla Paoletti costò in totale 100 milioni di lire. Oggi questa cifra non copre neanche uno stipendio di un giocatore di Serie A. I ritorni pubblicitari per uno sponsor ci sarebbero (soprattutto grazie a Sky), ma nessuno ha voglia di investire. Il successo iniziale era dovuto soprattutto alle persone appassionate, nelle scuole si praticava la pallavolo a tutti i livelli, soprattutto per la spinta data dagli ottimi risultati delle prime squadre. Poi gli stimoli finirono. A livello di base qualcosa continua, ma i risultati sono deludenti. In definitiva, manca la classe dirigente». La pallavolo è praticata in provincia di Catania da novantasei società, che contano 4800 atleti (1800 ragazzi, 3000 ragazze). In pratica c’è più di un pallavolista ogni due calciatori. Ma non c’è nessuna squadra tra i professionisti. Le società meglio piazzate giocano tutte in Serie B2 e la scorsa stagione sono state protagoniste in negativo: fino all’ultimo hanno dovuto lottare disperatamente per la salvezza.

Base larga, vertice basso. È anche il destino della pallacanestro. Le società catanesi non hanno mai partecipato ai campionati che contano, ma il numero dei praticanti è piuttosto alto: circa 2000 atleti divisi in 54 squadre. Da qualche anno è la Virtus Catania, che gioca in Serie B2, che cerca di valorizzare i giovani: «Abbiamo creato una società satellite, la Polisportiva Grifone – racconta Giuseppe Laneri, general manager della squadra – a cui abbiamo demandato tutta l’attività giovanile. Inoltre siamo impegnati con le scuole. In passato abbiamo anche ristrutturato a nostre spese la palestra comunale dell’Istituto Comprensivo Feltri, abbiamo organizzato tornei, abbiamo fatto promozione, abbiamo anche dei centri d’addestramento in palestre private». Eppure? «Non si riescono a trovare spazi per i centri giovanili, solo le società delle categorie superiori riescono a gestirsi gli orari per svolgere gli allenamenti». E i risultati, ancora, stentano ad arrivare.

(1 – continua)

Loris Casella

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