L’Università italiana sta morendo. Quando il suo corpo farà puzza di cadavere, sorgerà la domanda: l’hanno uccisa o si è suicidata? Sono le due tesi circolate tra gli storici sulla fine dell’Impero romano. Gli uni erano persuasi che la grande Roma fosse stata “assassinata” dai suoi nemici. Gli altri pensavano invece che Roma stessa avesse voluto la sua fine a partire dal basso impero, quando le cariche più importanti cominciarono ad essere affidate a mediocri carrieristi, mentre i migliori venivano sistematicamente eliminati.
Era una selezione alla rovescia, che ahinoi diventa sempre più frequente nella nostra società attuale. Fermandoci all’Università, risulta evidente che la sua fine, come quella dell’Impero romano, non sarà frutto né di omicidio puro, né di un puro suicidio. Nessuno, nemmeno il più convinto pacifista, si lascia assassinare, se non è proprio moribondo, e nessuno d’altronde è così avventato da sferrare impunemente un colpo su un organismo forte e vitale senza tenere conto della sua inevitabile reazione. Dunque al tramonto dell’italica accademia noi tutti, docenti di ogni ordine e grado, siamo almeno tanto responsabili quanto i suoi nemici, politici incompetenti o occhiuti profittatori.
C’è stata (e c’è) troppa rassegnazione di fronte a principi che devastano la natura dell’istituzione universitaria. Oltre al nepotismo e alla caccia alle cariche di potere, uno dei principi più velenosi per la salute dell’Università è l’elevazione dell’economia a divinità assoluta. Nessuno ama gli sprechi, e l’uomo di scienza meno che mai. Ma nessuno può applicare al futuro dell’Università la stessa logica della massaia che al mercato cerca di comprare la merce al prezzo più basso possibile.
Vediamone le conseguenze. Di recente l’università “Kore” di Enna, probabilmente per ragioni di risparmio, ha sottratto l’insegnamento di letterature comparate a una giovane e promettente ricercatrice, che lo aveva degnamente tenuto per anni, per affidarlo a un settantacinquenne pensionato (Nicolò Mineo), già docente di Letteratura italiana nella Facoltà di lettere, nonché suo preside per due mandati. Certo, la Kore è una piccola università privata e può assumere le scelte che crede più opportune. Ma si rendono conto il suo Magnifico rettore e l’Amplissimo Preside della sua Facoltà di Lettere del danno che hanno prodotto agli studi che dovrebbero tutelare e promuovere?
Intanto l’elementare principio del “largo ai giovani” è stato cinicamente ignorato e sostituito dall’altro: “i giovani a casa!”. Ma la conseguenza più grave la subisce la ricerca scientifica, valore “non negoziabile” per l’Università, pubblica o privata che sia. Le Letterature comparate sono una disciplina giovane e destinata a sicuro incremento nell’Europa unificata in cui viviamo. Toglierla a una giovane specialista e affidarla a un italianista in pensione significa condannarla all’estinzione.
Pertanto, con un colpo solo, l’Università di Enna ha soppresso una disciplina promettente e una promettente ricercatrice, senza fare un grosso favore al prof. Mineo, che non aveva certo bisogno di una lenticchia comparativa a Castrogiovanni, dopo un quarantennale magistero di Letteratura italiana, perfezionato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Così, senza esserne consapevoli, anche noi docenti più anziani e più saggi portiamo il nostro macabro contributo ai funerali dell’Università.
*Docente di Letteratura tedesca nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania
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