Yagmur è una ragazza di Istanbul, ha ventun anni, e studia letteratura Italiana all’università di Ankara. Nell’ultima settimana ha partecipato alle manifestazioni in piazza nella sua città natale e ha deciso di condividere la sua esperienza con CTzen. «Tutto è cominciato per difendere gli alberi, ma adesso è diverso. E il governo non lo capisce».
Yagmur, puoi descrivere la situazione politica e culturale che ha portato alle manifestazioni di questi giorni? Come mai tutto è nato proprio dal quartiere Taksim?
«Taksim è il centro del turismo e delle attività economiche, dove si possono incontrare persone molto diverse culturalmente tra di loro. Tutto è cominciato sette giorni fa, si voleva solo proteggere la natura. Perché il primo ministro Recep Tayyip Erdogan vuole distruggere Gezi Park, un’area verde che piace tanto ai bambini, per fare un centro commerciale e una moschea. Si è protestato inizialmente in un modo calmo, i civili volevano solo proteggere gli alberi di piazza Taksim. E hanno occupato Gezi Park, leggendo libri. Nella notte però la polizia ha attaccato chi era rimasto nel parco, bruciando le tende. Cosi si è trasformato tutto in una vera battaglia, con la polizia che ha lanciato lacrimogeni dagli elicotteri contro i civili. Il governo da quando si è insediato ha vietato molte cose, come l’alcol. Ha fatto arrestare i giornalisti, i soldati innocenti, quelli che sostengono Ataturk. Ha fatto aumentare il numero di forze di polizia. E in passato ha attaccato anche l’aborto e molto altro. Erdogan ci ha detto “Se io sono un dittatore, guardate il vostro passato e capite chi è il dittatore”. Non ha detto un nome ma tutti possono capire che si riferiva ad Ataturk. Ora il numero dei manifestanti è aumentato e la protesta è diventata la rivolta contro violenza, il governo, l’Akp. Siamo stat zitti, ora basta».
In Italia, in questi giorni, c’è molta incertezza su quanto accade in Turchia, su quelli che sono i veri dati degli scontri, sul numero di feriti, sul numero di arresti. Puoi descriverci tu quello che accade?
«I media turchi non hanno raccontato niente sulla protesta, abbiamo comunicato con Twitter, Facebook dove abbiamo condiviso le foto dei feriti. Ci sono stati molti feriti e morti ma il governo dice che le foto sono state create con photoshop. Abbiamo protestato anche contro i canali turchi come Habertürk, CnnTürk e Ntv. I poliziotti durante gli scontri hanno nascosto i numeri dei caschi per non farsi identificare. Un gruppo infiltrato che sostiene Tayyip ha anche aiutato la polizia attaccando le persone che aiutano i civili. E i lacrimogeni venivano lanciati anche sui bambini.
Il governo si rifà ai valori religiosi e c’è ancora molta differenza tra la vita nelle città e nei centri rurali. Tu hai la sensazione di vivere in un periodo di limitata libertà di pensiero?
Ci sono grandi differenze tra le popolazioni rurali e urbane. Nei centri rurali ci sono molti ignoti, poveri e il governo usa la religione per far arrabbiare la gente. Sui giornali hanno diffuso una foto nella quale sembrava che noi manifestanti distruggessimo una moschea. Ma in realtà non è cosi: i volontari hanno usato la moschea per curare i manifestanti, come testimoniano altre foto. Il governo sa come usare le persone. Nelle molte Università della Turchia c’è la libertà di pensiero. Ma a causa degli studenti dissidenti in questi giorni non si possono esprimere liberamente».
Quali sono le tue impressioni personali sul movimento di protesta? Da chi è composto, quali sono gli slogan?
«Come ho già detto, tutto è nato dalle persone che volevano proteggere la natura, Gezi Park. Perché ci sono già abbastanza centri commerciali e moschee. Erano contro la distruzione di uno dei pochi parchi che rimangono. Ma dopo la violenza usata contro chi protestava, altri membri laici della società turca, scrittori, cantanti, sindacalisti, studenti, hanno cominciato a dare sostegno. Tayyip ci ha chiamato “provocatori”. Si, c’erano anche i provocatori ma i manifestanti hanno sempre detto di “non danneggiate l’ambiente, non dire parolacce, non distruggete il dominio pubblico”. Gli slogan principali che si leggevano sui cartelli, invece, erano: “Governo dimettiti”,”lasciateci soli”, “vogliamo la libertà”. E anche “Tayyip è un dittatore”».
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