Irene Tinagli: «In Italia non ce l’avrei fatta»

«Ed è pure bella», dice un ragazzo in sala stampa, al Festival di Perugia, dopo aver sentito parlare dell’incontro con Irene Tinagli, l’economista che, partendo dalla Bocconi, è arrivata al World Economic Forum. «È pure bella», quasi che l’essere bella sia una cosa strana, per una donna intelligente, una cosa straordinaria. La contattiamo su LinkedIn, perché dal Festival deve scappare in fretta per andare da una parte all’altra dell’Italia, e lei ci risponde in qualche ora: «Sì, certo, tieni il mio numero di telefono, aspetto una chiamata e grazie!». Quando la raggiungiamo sul cellulare è a Torino, alla redazione di La Stampa, quotidiano di cui è editorialista, a meno di quarant’anni.

Ciao Irene, il tuo curriculum parla per te: docente universitaria, consulente dell’ONU, ex esponente del PD, scrittrice, editorialista, economista di fama mondiale. Ci racconti come hai cominciato?
«Studiavo economia alla Bocconi, mi sono laureata e poi ho cominciato a fare lì la ricercatrice. Ma non ero contenta, non mi sentivo soddisfatta, volevo continuare a imparare e pensavo da un po’ a fare un’esperienza all’estero. Così ho iniziato a cercare borse di studio, e ho vinto la Fulbright, del Dipartimento di Stato degli USA, inizialmente per un Master biennale, niente di troppo lungo. Alla fine però mi sono fermata anche per il PhD».

E non ti sei sentita in colpa per il fatto di andar via? Non ti sei posta la classica domanda «se parto anch’io in questo Paese cosa resta»?
«All’epoca, molto più di dieci anni fa, la situazione non era pessima come adesso. Sì, le cose non andavano bene, ma non c’era la paura di lasciare tutto allo sfacelo. E poi, sinceramente, non mi sono neanche posta il problema: non credevo di poter dare un contributo all’Italia, non sapevo come avrei potuto farlo, io volevo solo studiare ancora. Inoltre, ero partita per restare via due anni, non pensavo che sarebbero diventati dieci. Adesso sembra vada di moda programmare la propria vita come se fosse un piano aziendale, ma per me non era così. Figurati, ho cambiato idea decine di volte».

Credi che in Italia avresti avuto una carriera simile? Che avresti tagliato gli stessi traguardi?
«In tutta sincerità, no. Ho fatto quello che ho fatto perché mi sono messa alla prova su progetti stimolanti, di alto livello, e non credo che avrei trovato un’opportunità del genere in Italia».

Stai dicendo che non ci sono eccellenze, qui?
«No, per carità! Sto dicendo che qui si tratta di singoli individui che raggiungono vette altissime di professionalità, negli States mi sono trovata a lavorare in un intero contesto di quel genere. E poi, non dimentichiamo che io non parlo di percorsi di laurea, ma di percorsi post-laurea: in quest’ambito l’Italia sono vent’anni che arranca, affidandosi a docenti con una formazione ormai ben più che superata».

A proposito di formazione universitaria. Hai scritto per Einaudi un libro che s’intitola “Talento da svendere”. Parlando di svendite mi viene da pensare alla riforma Gelmini. Hai detto che la legge è stata attaccata per motivi scontati e banali. Tu quali avresti messo in evidenza?
«Beh, la riforma non è abbastanza incisiva, è un po’ dirigista, non ha introdotto sufficiente competizione e libertà di azione. Si poteva puntare più su questi punti piuttosto che su altri. Tipo: questa cosa della precarietà. Naturalmente è sbagliato che si precarizzi ancora di più la condizione di docenti e ricercatori, ma parlando solo di questo si fa passare il messaggio che l’Università non sia altro che il posto all’interno del quale piazzare più persone possibili, per dar loro uno stipendio fisso. Si poteva puntare di più sulla meritocrazia, stravolgere il sistema sul serio».

Dici che criticando qualcosa si fa passare per buono il suo opposto, senza rifletterci troppo?
«Ti faccio un esempio pratico recente: il boicottaggio dei test INVALSI nelle scuole. Certo, ci sono aspetti migliorabili in quel sistema, però il messaggio che passa dall’opposizione è che ci si deve sottrarre all’idea della valutazione. La riforma andava incalzata su molti aspetti, soprattutto su valutazione, autonomia e merito, e non soltanto su contratti e assunzioni: per carità, i fondi vanno certo aumentati, ma anche direzionati bene, altrimenti è inutile».

Parli dell’opposizione. Nel 2008 hai scritto una lettera molto amareggiata a Walter Veltroni: annunciavi le tue dimissioni dalla direzione nazionale del PD. A tre anni da allora, trovi che qualcosa sia cambiato?
«Sì, in peggio. Siamo tornati indietro: la sinistra di oggi è molto meno riformista, schiacciata sulle posizioni del sindacato, demagogica, retorica, ha perso molto di quell’istanza innovatrice che pareva voler avere alla fondazione del PD».

E quelle istanze le riconosci invece in Luca Cordero di Montezemolo?
«Sono due cose diverse, non so se abbia senso fare un confronto».

Beh, fai parte di Italia Futura, il think tank di Montezemolo. Se ci sei rimasta una ragione c’è, no?
«Si tratta di una fondazione, non di un partito politico».

Ma Montezemolo non è un personaggio che di politica non s’è mai occupato…
«Ci sono tanti modi per occuparsi di politica e contribuire al dibattito pubblico. Italia Futura è una fondazione, che attira attorno a sé personalità della cultura e della società civile che hanno a che fare con l’innovazione nelle sue più svariate sfumature. Noi non facciamo politica, siamo liberi da influenze ideologiche, facciamo proposte, immaginiamo scenari, tentiamo di migliorare le cose a partire dai contenuti e dai bisogni».

L.S.

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